domenica 29 novembre 2009

Terry Gilliam E Il Dottor Parnassus

Stefania Betti

Il 24 Novembre, Perugia ha avuto l’occasione di incontrare il regista angloamericano Terry Gilliam, invitato a partecipare all’anteprima cinematografica dell’ ”Immaginario Festival”, manifestazione in programma dal 3 all’8 Dicembre nel capoluogo umbro.


Il regista, che ha da poco compiuto 69 anni, è salito sul palcoscenico del teatro “Pavone” per essere intervistato da Alessandro Riccini Ricci, organizzatore del festival, e proporre al pubblico incredibilmente giovanile, la proiezione di alcuni suoi lavori, da “Tideland” alle animazioni per il “Monty Pythons Flying Circus“ - The Miracle of Flight” e “Storytime”, seguiti inevitabilmente dal suo ultimo, visionario, film “The Imaginarium of Doctor Parnassus- Parnassus, l’uomo che voleva ingannare il diavolo”.

Gilliam, scherzando molto con il suo Interprete e con il pubblico, si è mostrato disponibile a parlare del suo prossimo e molto discusso progetto cinematografico: “The Man Who Killed Don Quixote – L’uomo che uccise Don Chisciotte”.

Il progetto era talmente ambizioso, che sarebbe dovuto essere tra le più costose produzioni cinematografiche realizzate con fondi esclusivamente europei, ma per problemi con l’avvocatura francese, restìa a rilasciare la sceneggiatura, le riprese sono state posticipate di quasi 8 anni, e sembra che inizieranno in Primavera in Spagna.
A parere del regista, però, questa lunga pausa ha beneficiato al film, che ora, con una nuova sceneggiatura, risulta più interessante, a partire già dal titolo. Sembrerebbe che la storia sia incentrata su di un uomo che si crede Don Chisciotte e che vede crollare tutte le sue certezze tornando dopo 10 anni in un paese che aveva considerato idilliaco, e trovandolo del tutto cambiato. Gilliam ha dichiarato di non voler svelare il cast completo e i dettagli della trama finchè non avrà trovato i soldi della produzione. Una cosa, però, è certa: nel cast non figurerà Johnny Depp, “troppo preso dai suoi impegni di pirata”.
Il regista ha anche aggiunto, ostinato: “Voglio realizzare questo progetto proprio perché tutti mi dicono di non farlo”.

Inevitabile la domanda sulle difficoltà incontrate dal regista nel portare avanti la lavorazione di "Parnassus" dopo la tragica scomparsa dell’attore Heath Ledger.
Gilliam ha risposto, dapprima ironicamente: “Basta avere lo specchio magico!” (alludendo evidentemente all’oggetto-fulcro della storia di Parnassus), poi, riacquistata la serietà, ha rivelato che le riprese sono andate avanti soltanto grazie all’insistenza di sua figlia, co-produttrice del film, che riteneva doveroso terminare l’ultimo film dell’attore, come tributo al suo talento e alla sua memoria.
Il regista ha commentato la scritta inserita prima dei titoli di coda a fine film, in cui si legge “Un film di Heath Ledger e Amici”, definendola "una esplicita dichiarazione del clima fraterno nato durante le riprese": gli attori Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell, hanno infatti deciso di devolvere i loro compensi a Matilda Ledger, unica figlia dell’attore scomparso.

Rispondendo all’ultima domanda riguardante Parnassus, su quanto egli fosse soddisfatto del suo lavoro, Gilliam ha esclamato: “Io non credo di aver mai imparato a fare dei film, ma di Parnassus sono molto soddisfatto. Mi pagano come un regista, ma in realtà io mi sento come uno studente! Mi piace fare film che risultino intelligenti per i bambini, e interessanti per gli adulti. Voglio coinvolgere il mio pubblico su più livelli, fare film che permettano di usare la testa”.

Ha poi lasciato il palcoscenico sorridendo, e aggiungendo che dopo tanto parlare di fantasia “alla realtà non riesco proprio a pensare, ma domani dovrò di nuovo affrontarla, purtroppo, rimettendo piede a Londra!”

L’edizione di quest’anno dell”immaginario Festival”, evoluzione di bATik film festival, è dedicata ai 70 anni di Batman e ai miti del presente, argomento trattato da diversi punti di vista, dal cinema al fumetto, dai videogame alle serie tv.

Per maggiori informazioni potete consultare il sito: http://www.immaginariofestival.org/










martedì 17 novembre 2009

Terminator 4: Il Crollo Di Un Mito

Nicola Pili

Qualcuno ebbe a dire una volta: “(…)da giovani pensavano che il loro culo sarebbe invecchiato come il vino. Se vuoi dire che diventa aceto, è così; se vuoi dire che migliora con l’età, non è così” -Marcellus Wallace-.
Quale aneddoto calza di più di questo per tutti i recenti disastri Hollywoodiani: basti pensare a film come “Trenta giorni di buio”o gli ultimi film di “James Bond”, o ancora al farcito “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo” che già il titolo fa ridere. Ma questa le batte tutte.

Terminator Salvation
Non poteva farcela a lungo. Con "Terminator 3: le macchine ribelli" la formuletta magica di Hollywood aveva funzionato per l’ennesima volta: chi non avrebbe voluto rivedere il caro Schwarzy in vesti metalliche, la purissima azione, le esplosioni e le gambe rotte che i precedenti due capitoli della saga robotica più celebre(nulla togliendo a Tetsuo)che avesse mai solcato i nostri schermi ci aveva regalato. Una saga costellata di paradossi allucinanti e colpi di scena della vita familiare alla Guerre Stellari. Così lo vidi; e lo videro tutti gli appassionati del genere. E guardando questo film, l’idea che già da altri film mi era stata suggerita si realizzò definitivamente: gli effetti speciali, pur essendo potenti al cinema o con un sistema dolby, non fanno il film. Troppe sono state le esplosioni computerizzate e le automazioni dei robot al limite dell’irrealtà; tutto troppo perfetto. E, come sempre, quando un aspetto del film poco importante come gli effetti viene curato meglio, a scapito degli altri parametri importanti del film, come l’interpretazione e lo storyboard, la pellicola è condannata.

Certo, può essere piaciuto a qualcuno, forse a molti, ma tutti saranno d’accordo nel sostenere che il penultimo capitolo di Terminator non può considerarsi neanche lontanamente paragonabile ai suoi predecessori. Ma eccoci al dunque: che senso avrebbe, dopo lo scortese schiaffo puzzolente della soap-opera Sarah Connor Chronichles, umiliare ancora la memoria di un classico della cinematografia contemporanea quale è Terminator? Rivoltarlo, scuoterlo come un tappeto sporco, appropriarsi della storia, dei personaggi e delle invenzioni solo per fare un altro, ennesimo film futuristico d’azione senz’anima e senza un briciolo di modestia?
Hollywood ce lo vede un senso: il boom ai botteghini. Come per Star Wars e Indiana Jones poi, hanno di nuovo fregato tutti alla grande: il titolo sul manifesto sembra il canto di una sirena che attrae e poi uccide, un richiamo a cui è impossibile resistere. Per fortuna, tutti noi oggi possiamo giovare del servizio che internet esegue per la comunità: farci assaggiare il prodotto (quasi sempre facendocelo mangiare per intero), così possiamo testare la qualità. Io ho fatto così. Sembrerebbe che io l’abbia visto questo film, da come ne sto parlando. In realtà non l’ho visto per intero: sono “uscito dalla sala” prima, non so quanto. Cercavo di resistere per vedere finalmente di nuovo Arnold fatto al computer, tornato in auge come al suo esordio; ma non ce l’ho fatta. Scontato, ambizioso e, nonostante gli sforzi, per niente cupo. Buona visione.

sabato 7 novembre 2009

Fortapàsc

Maurizio Fo

In un triste weekend di Halloween causa influenza, ho scelto di noleggiare questo film la cui uscita nelle sale risale alla scorsa primavera. Senza togliere il gusto della visione (che consiglio personalmente a tutti), è bene per completezza raccontare in sintesi la vicenda. Prima di tutto, la storia è vera. Il titolo allude al fortino assediato dai pellerossa, che in questo caso sono metaforicamente rappresentati dalla camorra.

Torre Annunziata, 1984.
Alla redazione-succursale del giornale “Il Mattino” di Napoli lavora un giornalista “abusivo”, Giancarlo Siani. Inizialmente si occupa di fatti di cronaca nera. In seguito viene a conoscenza delle collusioni tra camorra e politica e denuncia, sempre dopo un’attenta e scrupolosa verifica, i fatti così come si svolgono, senza filtro alcuno, spiegandone tutti gli intrecci.

Il suo operato, però, non è di gradimento né ai politici (vedi il sindaco di Torre), né tantomeno ai boss Valentino Gionta (astro nascente della camorra locale) e Lorenzo Nuvoletta.

Intanto Siani è promosso giornalista presso la redazione de Il mattino di Napoli, dove incomincia a lavorare su un’inchiesta riguardante l’appropriamento indebito dei fondi per la ricostruzione del dopo terremoto in Irpinia da parte della camorra.

Contemporaneamente la crescita di potere di Gionta non piace ai suoi alleati, che decidono di venderlo alle forze dell’ordine.

Siani scrive un articolo che riguarda appunto questo fatto: firma così la sua condanna a morte.
I Nuvoletta, per salvaguardare il proprio onore di fronte a Gionta, decidono di farlo tacere.
La sera del 23 Settembre 1985, a Napoli due killer freddano con dieci colpi di pistola il giornalista in un parcheggio sotto casa. Misteriosamente dell’inchiesta cui Siani stava lavorando non se ne sa più nulla.

Ben dodici anni passeranno prima che si conoscano i volti dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio del giornalista.

In rete è possibile comunque reperire numerose recensioni ed analisi.
Eccone una:

http://www.100cinema.it/index.php?/494-Fortapasc-Al-Cinema-Scheda-Cast-Trama-Pressbook-Recensione-Trailer.html

Personalmente dissento dal definire questo film solamente un potenziale buon prodotto per la Tv, come dichiara la recensione sopra indicata. È vero, ci sono dei difetti: molti personaggi sono caricaturali (basti vedere i boss o le impotenti forze dell’ordine), il sorriso finale di Siani forse è troppo costruito e lascia un messaggio di speranza eccessivo. Ma l’obiettivo principale del film è diverso: oltre a raccontare un pezzo di storia italiana purtroppo dimenticata, è importante come il regista abbia voluto rappresentare sullo schermo la storia di un uomo, che ha perso la vita solo per aver raccontato la verità dei fatti.

Una scena molto significativa è quella in cui Siani (Libero De Rienzo: una perfetta mimesi col vero Siani) parla sulla spiaggia col suo ex direttore alla redazione di Torre, Sasà (Ernesto Mahieux). Quest’ultimo spiega a Siani la distinzione tra “giornalisti-giornalisti” (quelli che ricevono la notizia, la verificano e la scrivono senza esitazione) e i “giornalisti-impiegati” (quelli che scrivono, non fan scoop, inchieste): ritenendo di appartenere alla seconda categoria, il personaggio mostra di essere un ingranaggio ormai perfettamente integrato nel sistema, che tutto sommato è contento, perché ha la macchina, l’appartamento, l’assistenza sanitaria.... E ha raggiunto questo traguardo perché a differenza di Siani non caccia il naso dove non gli è consentito. Perché gli scoop fanno male: scuotono le coscienze, fanno venire a galla la verità. E questo non sta bene ai boss ovviamente.

Siani quindi faceva parte di quella serie di giornalisti, scrittori o, allargando il perimetro, di tutte quelle persone, che amavano la loro professione. La storia italiana è ricca di questi personaggi e molti di questi sono poi stati ricordati in pellicole come questa: basti pensare ai “Cento passi” di Marco Tullio Giordana su Peppino Impastato o alle numerose fiction sui giudici Falcone e Borsellino. Pochi, come il sottoscritto, avrebbero conosciuto la vicenda di Siani se Marco Risi (figlio del famoso e compianto Dino) non avesse diretto questo film a distanza di quasi trent’anni dalla sua morte.

Anche oggi c’è un Siani tra noi ed è Roberto Saviano, un uomo che oggi vive praticamente da ergastolano e perennemente sotto scorta per aver scritto un libro, dove racconta nient’altro che la verità, non la rielabora, rende leggibili citazioni di atti processuali e spiega l’intelaiatura del tessuto camorristico, come guadagna, come investe, come ammazza. E per questo continua a ricevere minacce di morte: pochi mesi fa era stato persino scoperto un piano per ucciderlo, che ha costretto lo scrittore a cambiare immediatamente il suo “rifugio”. Come un animale braccato.

Credo che aldilà del gradimento o no che possa derivare dalla visione del film sia necessario innanzi tutto riflettere e non dimenticare personaggi come Siani e soprattutto continuare a sostenere chi lotta per il diritto all’informazione. E solo così nel nostro paese (perché la camorra come la mafia non sono un’esclusiva di Campania e Sicilia) non vi saranno più Fortapasc.

Allego alcuni siti d’interesse:

http://www.giancarlosiani.it/mistero.html sito ufficiale di Giancarlo Siani

http://www.osservatoriocamorra.org/root_sito/pagine/

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=1179 doc. sulla vicenda Siani

giovedì 5 novembre 2009

Inglourious Basterds: Bastardi Senza Gloria

Marco Parini

Abbandonati gli eccessi splatter e B-movie delle sue ultime produzioni (Kill Bill e Grindhouse) il nuovo film di Tarantino, Inglorius Bastards, segna un ritorno ai fasti di Pulp Fiction e de Le Iene coi quali si può dire formi un trittico ideale, massima espressione della sua arte.

Il film non è privo di scene forti, citazioni e riferimenti ad elementi e cifre stilistiche tipiche dei generi tanto amati da regista di Knoxville e immancabili in ogni sua opera, ma si tratta, questa volta, di riferimenti e citazioni spesso sottili e sempre integrate con equilibrio e sapienza nel tessuto del film; così che nessun punto si ritrova a risaltare eccessivamente distraendo con forza o infastidendo lo spettatore che può, se possiede la cultura necessaria, godere di questo secondo livello di lettura senza che l’armonia della trama del film ne risulti inficiata.

Inglorius Bastards è difatti un film che, nella sua complessità, scorre benissimo e con una tale attenzione e maestria nella costruzione di ogni scena da riuscire a tenere la tensione alta fino al crescendo finale: un vero e proprio momento di catarsi collettiva che per le sue molteplici letture vale da solo, assieme al magnifico prologo, il prezzo del biglietto e quello di una seconda visione.

Il film segue due storie che vanno strettamente intrecciandosi sullo sfondo della Francia occupata dai nazisti: quella dei Bastardi di Aldo Raine e dell’ebrea Shoshanna. Aldo Raine (Brad Pitt) comanda una squadra di soldati ebrei scelti col compito di infiltrarsi dietro le linee nemiche e uccidere quanti più nazisti possibile e nel modo più cruento possibile, in una campagna a metà la guerriglia e la vendetta.

Shoshanna (Mélanie Laurent) è una francese ebrea sopravvissuta da ragazza al massacro della sua famiglia perpetrata dalle SS del colonnello Hans Landa (Christoph Waltz; al quale questa interpretazione è valsa un meritato premio a Cannes) e rifugiatasi a Parigi dove la ritroviamo a gestire, sotto falsa identità, un cinema.

L’infatuazione per Shoshanna di un eroe di guerra tedesco sarà il primo di una serie di eventi che porteranno le alte gerarchie del terzo reich nel suo cinema per una premiere. Shoshanna deciderà di approfittare dell’evento per riprendersi la rivincita sugli assassini della sua famiglia e del suo popolo mentre ai bastardi verrà assegnata la missione, con l’aiuto di un ufficiale inglese e una spia tedesca, di infiltrarsi e uccidere Hitler e i suoi gerarchi.

Hans Landa non ha propriamente una sua storia ma si può indicare senza fallo come il protagonista assoluto del film. Egli costituisce il collegamento fra la storia dei bastardi e quella di Shoshanna, interviene in entrambe con forza e costituisce il filo conduttore dell’intera opera. Col suo agire, a tratti con la sua sola presenza, impone i ritmi e i limiti agli altri personaggi, costretti costantemente a fare i conti con l’intelligenza, l’istinto e l’imprevedibilità di questo colonnello delle SS detto “Il cacciatore di ebrei”. Hans Landa non solo gioca con gli altri personaggi ma anche, e per suo tramite il regista, col pubblico imponendosi come uno dei cattivi, e tout court dei personaggi, più affascinanti del cinema.

Anche gli altri protagonisti risultano convincenti nei loro vari ruoli. Attorno a questo film esiste moltissimo materiale che Tarantino, il quale pensava inizialmente di fare de Inglorius Bastards un telefilm, ha dovuto lasciar fuori dall’opera finale e probabilmente è grazie alla sua conoscenza approfondita d’ogni singolo elemento del mondo dei bastardi che ogni personaggio, per quanto marginale e per quanto poco appaia sullo schermo, risulta ben tratteggiato, dotato di una sua psicologia e di un suo valore che gli permettono di imprimersi nella mente dello spettatore. L’unica eccezione è forse Hitler il quale risulta eccessivamente grottesco ma considerato il suo ruolo in questo film più di simbolo che di personaggio si può perdonare il suo essere una macchietta.

Come anticipato il punto culminante del film, il fulcro della parte finale, è un momento estremamente catartico. La catarsi è lo scopo principale del film che costruisce e mantiene costante la tensione, con pochi punti di sfogo umoristici e/o violenti, per permettere allo spettatore di scaricarla tutta in un colpo nella liberatoria scena madre. Detta scena è altresì il momento in cui lo spettatore ha modo di accorgersi di come tutti i riferimenti cinematografici palesi e nascosti del film non sono solamente manifestazioni di affetto di Tarantino nei confronti del cinema ma un discorso, che percorre tutta la pellicola, sul cinema: cos’è, a cosa serve e come si fa. Un discorso profondo, una seconda chiave di lettura che aggiunge molto valore a Inglorius Bastards: film catartico, fantastorico e meta filmico.

Chiunque ami il cinema dovrebbe andare a vedere che questo film che prima di essere una grande opera di fantastoria, una emozionante pellicola d’azione, una nuova perla dello stile tarantiniano, è una grande dichiarazione d’amore alla settima arte.

domenica 18 ottobre 2009

...E' Giustizia Per Tutti.. O No?

Maurizio Fo

Come tutti sapranno o avranno almeno letto o sentito, il regista 76 enne Roman Polanski è stato arrestato lo scorso 26 Settembre all’aeroporto di Zurigo, dove era atterrato per ritirare un premio d’onore alla carriera, con un mandato di cattura internazionale proveniente dagli Stati Uniti.

Ordine d’arresto: “ricercato per atti di natura sessuale con minori”.

Il giorno successivo su molti giornali compariva il titolo “Polanski arrestato per stupro”: per qualsiasi lettore (o almeno per i lettori poco informati come il sottoscritto), un titolo simile potrebbe esser interpretato come un fatto accaduto nell’arco di qualche mese o al massimo qualche anno.

E invece no.

Ricostruiamo i fatti.

Los Angeles, 1977.
Nella villa dell’attore Jack Nicolson c’è una festa. Qui il regista (già famoso per il film “Rosemary’s Baby”, “Chinatown” e per il macabro massacro della moglie Sharon Tate per mano della “famiglia” di Manson) si apparta vicino alla piscina con una ragazza all’epoca poco più che tredicenne, Samantha Geiger. Prima il regista scatta delle foto a seno nudo della ragazza e poi ha con lei un rapporto sessuale.

Successivamente scoppia lo scandalo, i genitori della bambina denunciano il regista, che viene da subito ricercato. Al processo patteggia per l’accusa di stupro, ma l’anno successivo viene condannato per sesso con una minorenne. Il regista sostiene la tesi secondo cui la madre della bambina abbia architettato un piano contro di lui per poi ricattarlo.

Nel Gennaio del ’78, Polanski fugge dagli Stati Uniti (dove non metterà più piede) in Francia, dove ottiene la doppia nazionalità (assieme a quella polacca). Da allora vivrà in Francia o Polonia e non rientrerà mai più negli Stati Uniti o in paesi che abbiano accordi di estradizione. Non parteciperà, infatti, alla notte degli Oscar® 2003 dove vincerà con il film “Il pianista”.

Fino al 26 Settembre 2009.
Il regista forse ha scordato che anche la Svizzera assieme ad altri paesi europei è legata agli Stati Uniti con questo tipo di accordi. E scatta l’arresto.

Subito dopo, giungono una marea di critiche e di appelli in favore della sua scarcerazione da parte di intellettuali o artisti quali Irina Bokova (Direttrice dell’Unesco), Frédéric Mitterand (Ministro alla Cultura Francese). Il ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski, ha detto di essere d'accordo su un approccio comune nei confronti delle autorità americane e non esclude di chiedere la concessione della grazia al presidente Barack Obama. Molti attori e registi tra cui Costa Gavras, Wong Kar Wai, Monica Bellucci e Fanny Ardant hanno firmato una petizione dove accusano la Svizzera di essersi servita del Festival, dove Polanski avrebbe ritirato il premio, per arrestarlo.

Diversa è risultata invece l’opinione del governatore della California Arnold Schwarzenegger che ha dichiarato in un’intervista alla CNN: "Sono un grande ammiratore del suo lavoro, ma se dovesse tornare in California sarebbe trattato come una persona qualsiasi".

In questo breve tempo di detenzione il regista è rimasto in carcere, dove ha continuato ad opporsi per la sua estradizione e a lavorare al suo nuovo film “The Ghost”.
Proprio ieri il regista è stato trasferito dal carcere Winterthur in un ospedale del canton Zurigo per problemi di salute (per cui soffriva già da prima dell’arresto), ma dovrebbe tornar in cella entro Lunedì.

È giusto quindi che Polanski venga estradato e sconti la sua pena per una condanna risalente a 33 anni fa? Il reato commesso è grave, certo e la legge è uguale per tutti. Ma ha senso dopo tutto questo tempo? Molti inneggiano alla grazia, ma se il reato non fosse stato commesso da un personaggio famoso?

La vittima (che vive oggi alle Hawaii) ha chiesto, nel Gennaio scorso, che il caso venisse archiviato e in un’intervista dice di averlo perdonato, in quanto il regista avrebbe già pagato abbastanza le sue colpe. Nel corso degli anni poi numerosi amici, fan, registi e attori di Hollywood hanno ribadito la necessità di dimenticare quella triste e vecchia storia.

Non si sarebbe dovuta eseguire la condanna all’epoca dei fatti? Perché aspettare l’occasione giusta o peggio tender addirittura una trappola? Perché la Francia ha ignorato per trent’anni i mandati di cattura e le richieste di estradizione americane? Parigi si schiera in favore di qualsiasi cittadino francese, senza tener conto della natura dei reati penali commessi.

È logico adesso questo accanimento giudiziario su un regista 76 enne?

Ci aggiorneremo.

martedì 22 settembre 2009

Emancipazione Knopfleriana: Kill To Get Crimson, Ovvero L'Inizio Del Distacco (Prima Parte)

Matteo Scarcia

La musica commerciale è dovuta principalmente a mancanze da parte dell’audience: si ritiene sempre necessario che l’artista che ci ha maggiormente colpito con un album debba sempre ripetersi con un nuovo disco, con nuove canzoni che piacciano allo stesso modo, che ci colpiscano allo stesso modo. In sostanza, ricerchiamo, fondamentalmente, la ripetizione dell’intuizione artistica, dell’ispirazione artistica sottoponendo quindi l’artista ad un suo sostanziale appiattimento a livello di idee. La cosa divertente è che poi, contestiamo l’artista per essere, alla fine ripetitivo e di non innovarsi mai. È questo il punto: vogliamo l’innovazione sempre vecchia. Vogliamo essere presi in giro. Quindi, vogliamo vedere che Mick Jagger e Keith Richards si scazzottino e saltino sul palco come ai vecchi tempi, anche se hanno la veneranda età di quasi settant’anni e siano quasi plastificati. Mi domando allora: cosa fareste voi se vedeste i vostri nonni saltellare a ritmo di musiche chiaramente fuori luogo per la loro età? Dubito che pensereste bene di loro. Non si può prescindere dalla propria età e c’è l’età giusta per fare le giuste cose.

Questa premessa si pone necessaria per descrivere non tanto l’artista, ma il percorso intrapreso con gli ultimi due album da colui che voglio recensire: Mark Knopfler.

Breve ricostruzione storica: Mark Knopfler è stato il fondatore, la voce, ma soprattutto la chitarra (nelle fattezze della Fender Stratocaster e, per coloro che l’hanno visto in qualche concerto anni ’80, la Dobro, la chitarra resofonica di Romeo and Juliet) dei Dire Straits, gruppo di non facile descrizione musicale in quanto sfuggente e allo stesso tempo mescolatore di molti generi musicali, ma comunque facenti capo ad un particolare tipo di rock country-folk-pop blues (di stampo J.J. Cale, come ammesso dallo stesso Knopfler).

Con l’uscita di Kill to Get Crimsom prima (2007) e Get Lucky (2009), poi Knopfler ha intrapreso un percorso musicale che si discosta molto dal genere tipico dei Dire Straits e che tante critiche riceve dai suoi fan: è passato a suoni quasi celtici, molto distanti dalle atmosfere rarefatte e un po’ polverose dei primi Dire Straits. Bene. Descriviamo i due album.

Il primo è Kill to Get Crimsom ed è uscito a seguito della collaborazione con la cantante country americana Emmylou Harris (collaborazione per la verità della quale non sentivamo granché la necessità e grandemente criticata da più parti specialmente per la resa concertistica). L’album è finalmente, il punto di rottura di Knopfler con le vecchie radici straitsiane: valzer, polche, melodie medievaleggianti caratterizzano il susseguirsi dei brani sino ai due pezzi conclusivi, a mio parere, i migliori. Madame Geneva e In the Sky. Il primo s’inserisce all’interno della scia già tracciata dallo stesso Knopfler con lavori precedenti, somigliando molto, a livello di ispirazione e di resa musicale, a pezzi come Sailing to Philadelphia e Back to Tupelo. La seconda, invece, rappresenta il definitivo distacco dell’artista dal suo passato così ingombrante: una ballata epica, sognante che culla l’ascoltatore lungo i sette minuti che la caratterizzano. Perché segna il suo definitivo distacco: assomiglia per certi versi, alle cavalcate straitsiane degli anni Ottanta, ma se ne discosta in quanto le atmosfere sono quasi minimaliste, i tocchi di chitarra sono più controllati e sembrano voler incidere più per bellezza che per quantità. Non più 3-4 minuti di assoli, ma un minuto per far scoprire all’ascoltatore che si può andare oltre con il pensiero e che si può ascoltare qualcosa di nuovo, da un artista anche vecchiotto (sessant’anni compiuti il 12 agosto), ma che porta con sé una grande carica d’ispirazione artistica, quella stessa carica che sembra persa nella maggior parte degli artisti, o presunti tali, che il mondo mediatico ci concede di giudicare.

In realtà, però, l’album è insufficiente. La critica verte principalmente sulla resa musicale delle idee knopfleriane: canzoni poco incisive, prive di mordente e di quel quid che ti fa dire “Ora la riascolto”. Così, l’album scivola via e si perde tra i troppi “ma” che affollano la mente dell’ascoltatore. Un ottimo sottofondo alla propria esistenza. Una fantastica colonna sonora e due pezzi finali che valgono da soli l’acquisto del cd (e anche qui potremmo aprire innumerevoli altre parentesi), ma forse un po’ poco per un artista dello spessore storico-musicale come Mark Knopfler. Ma per lo meno ha posto le basi per l’album successivo, simile per ispirazione ma decisamente migliore dal solito punto di vista della resa musicale. Ma di questo, ve ne parlo la prossima volta.

lunedì 29 giugno 2009

Il Socrate Del Grande Nord: Dove La Piazza Si Fa Sala Di Cinema

Alessia Ferraris

“Le piccole ferite dell'io e le coliche morali sono esaminate al microscopio. La paura del vero che caratterizza il soggettivismo e le coscienze scrupolose è diventata di gran moda e noi corriamo finalmente in un enorme recinto in cui litighiamo sulla nostra solitudine, senza ascoltarci a vicenda, senza notare che ci spingiamo gli uni verso gli altri, sino a morirne soffocati.” (da Tino Ranieri, Ingmar Bergman, il castoro cinema).

La natura è indifferente ai drammi dell’umanità: con i suoi ritmi e i suoi cicli, pare farsi beffe dei nostri travagli. E’ forse questo cuore selvaggio, che ha reso l’uomo contemporaneo così non curante verso le sofferenze dei suoi simili.
Ed ecco che l’ipersensibilità di alcuni appare più come la risposta allergica spropositata di un sistema immunitario che riconosce come dannose sostanze innocue, piuttosto che la voglia di comprendere ed aiutare l’altro: è la sensibilità che si fa vanto, nei moderni salotti radical chic.

In un simile scenario, dove l’individuo arranca nella sua ignoranza spirituale e sentimentale, salvifiche sono le figure che portano alla luce disagi ed inadeguatezze. Nella Grecia antica, Socrate aveva saputo dare una svolta al pensiero, fornendo non solo l’esempio di un metodo d’indagine, ma soprattutto proponendo un modello di vita cui ispirarsi, opponendosi ai meschini sofisti e a quei detentori di verità marmoree.

Oggi molte sono le luci che si stagliano, ma una in particolare giunge dal freddo nord Europa e prende il nome consonantico di Ingmar Bergman.

Regista poliedrico, che ha saputo fare cinema per mezzo secolo, Ingmar Bergman è sicuramente una delle voci più esperte in merito: la sua filmografia è fin dall’inizio costellata da opere che richiamano lo spettatore alla riflessione. Certo, perché se la medicina è la scienza di chi ricerca un’appagante risposta chiarificatoria sui meccanismi dell’anima e del corpo, l’arte, nella sua accezione più nobile, è la scienza di chi esige l’analisi, di chi ama l’interrogativo, di chi vorrebbe operare una radiografia al proprio spirito ed è in quest’ultima prospettiva che Bergman si pone.

L’analisi della vita dell’autore risulta quanto mai indispensabile in questo caso, dato che le esperienze biografiche diventano spunto per i suoi film. Ma partiamo con ordine.

Egli nasce in Svezia, in un’austera famiglia protestante nel 1918. Figlio di un pastore luterano, in casa regnava una disciplina ferrea, che non lasciava spazio all’errore, né tanto meno alla spontaneità. Sempre nel mirino del giudizio dei parrocchiani, la famiglia viveva “come sul palco di un teatro” e lo stress era notevole. Nessuno poteva lasciarsi andare ad atteggiamenti ritenuti “eccessivi”, la decenza e il decoro erano le parole d’ordine: Così le fantasie di un bimbo di sette anni che sognava di andare a vivere in un circo era punita in maniera esemplare (come si ricorda nell’autobiografia “Lanterna Magica”).

Un simile ambiente ha avuto conseguenze differenti sui tre figli della coppia: Ingmar Bergman asserisce di “aver imparato ad educare se stesso alla Menzogna”, celando all’altro i propri veri sentimenti, vestendo di volta in volta maschere diverse a seconda delle situazioni. Uniche costanti nei vari rapporti erano il cinismo e l’indifferenza, più o meno consapevoli.

Nessuno poteva scalfire questo gelido animo, se non la macchina da presa, che piomba nella sua vita per caso, un freddo Natale, quando gli viene regalata una rudimentale lanterna magica: è l’inizio di un legame durato per più di cinquant’anni.

Superfluo cercare nella filmografia un punto di riferimento: tre periodi si possono riconoscere nella carriera e per ciascuno di essi è arduo assegnare il titolo di capolavoro ad una singola opera. Da “Il posto delle fragole”, a “Fanny e Alexander”, da “Persona”, a “Sussurri e grida”, per non dimenticare la cosiddetta trilogia su Dio e l’acclamato “Scene da un matrimonio”.

Unico leitmotiv nel turbinio di interrogativi è l’approccio alle diverse problematiche: l’artista di Uppsala è un chirurgo, che con il bisturi della coerenza e dell’analisi impietosa rimuove i brandelli di maschere che nascondono la necrosi ora della morale ora della società. L’uomo descritto è un individuo solo nella comunità, benché attorniato da più persone, solo nella vita, benché accompagnato da un Dio ormai claudicante.

Se nella prima parte della carriera, un Bergman incerto si cementa in commedie brillanti dall’amaro retrogusto esistenzialista, è con gli anni Cinquanta che il suo cinema si svela al grande pubblico. Tra il 1957 (anno in cui esce “Il settimo sigillo”) e la fine degli anni Sessanta, il regista rincorre le tematiche più diverse, in un labirinto di dubbi e incertezze: dal rapporto conflittuale con la religione ( “Il settimo sigillo” o “Come in uno specchio”o ancora “Luci d’inverno”), alla prospettiva catastrofica di un mondo senza Dio (e senza anima, come in modo straziante è ricordato ne “Il silenzio”); dalla visione dell’arte come un rito, un qualcosa che prende avvio dal nostro inconscio più remoto (“Il volto”, “Il rito”); ai lavori più d’avanguardia, come “Persona” ( film fondato sul paradosso di un’attrice che si accorge di aver recitato molteplici ruoli nella vita reale come sul palco, senza cinicamente rilevare una gran differenza) o “L’ora del lupo”, dove si mette in scena più o meno letteralmente lo scomporsi dell’unità dell’io, la presa di coscienza dell’impossibilità dell’individuo di essere “uno” (“Lo specchio si è rotto, ma che cosa riflettono i frantumi, sapete dirmelo?” intona Johan Borg ne “L’ora del lupo”. Con “Sussurri e grida” si assiste ad uno spartiacque con il passato: è il primo lungometraggio a colori e il maestro sa giocare efficacemente con il simbolismo ad essi associato, producendo un film che si annovera tra i capolavori della storia del cinema. “Sussurri e grida” è la storia di un trio, in cui ciascun componente si fa portavoce di un modo di afferrare la vita: sono tre sorelle, di cui una è la gelida razionalità, il raziocinio disposto “a rinchiudere Cristo in un manicomio” (come viene menzionato a tal proposito nella pièce teatrale giovanile “Il giorno finisce presto” ); Liv Ullman è la carnalità esuberante, fatta di affettuosità melliflue e futili discorsi sdolcinati; ed infine la sorella malata, colei che davvero sa che cos’è la vita, proprio grazie alla sua malattia, che la porta a riconoscere nell’esistenza e nel sincero rapporto con le sorelle un significato che va al di là delle semplici moine civettuole e delle rigide asserzioni di una ragione onnipotente.

Da “Sussurri e grida” lo stile del regista si fa più scarno, abbandona la ricerca del contrasto di luci e ombre (che tanto gli riesce bene in film come “Persona" o “Luci d’inverno”) e maggiormente incentrato sul dialogo, sull’analisi dei volti e delle loro espressioni, divenendo un vero e proprio banco di prova per i suoi fedeli attori. Perciò non si può non riconoscere a “Scene da un matrimonio” del 1973 il suo fortissimo impatto mediatico (tanto che i sociologi dell’epoca riconobbero in esso la causa scatenante dell’impennata di divorzi che seguirono): ritratto di una coppia piccolo borghese dall’appagante vita tra gli agi e la serenità, il matrimonio si rivelerà ben presto un vero e proprio carcere, un incubo, scaturito dal totale “analfabetismo sentimentale” (come lo definisce il protagonista Johan) che li affligge. Un analfabetismo tuttavia ben più drammatico, che affonda le sue radici nella totale ignoranza per ciò che riguarda la propria persona, il proprio essere, che prescinde le maschere imposte de genitori, insegnanti ed amici. Johan e Marianne sono due adulti che si sono convinti della verità ontologica di quel travestimento, che hanno finito per scambiare l’abito con il corpo, il velo di Maya con il mondo. Il quadro raccapricciante è presto definito.

Con “Fanny e Alexander” Bergman ha voluto concludere la sua carriera, lasciandoci un’opera che somiglia più ad una favola, dove fantasia e narrazione autobiografica si intersecano in un racconto formidabilmente riuscito. Faranno seguito opere minori, come “Dopo le prove” e l’ultimissimo “Sarabanda”, in cui l’artista si cimenta nell’era del digitale.

In ultima analisi, perciò, nel regista svedese, si può riconoscere quella figura un po’ mitica e un po’ veritiera, che forse ha annoiato molti studenti sui banchi di scuola, ma il cui valore sociale e culturale è indiscutibile: Socrate. Il filosofo è passato alla storia per la sua inconfondibile ed inarrestabile fame di verità, che lo spingeva per le vie della polis e nelle piazze a porre le domande più banali e più semplici su temi come giustizia e libertà. E non c’era scampo per gli interlocutori: ricchi e poveri, giovani e vecchi, nessuno si poteva esimere da questo incrollabile scienziato del dubbio, che metteva in discussione non già per portare avanti una polemica sterile e distruttiva, ma anzi per porre le basi ad un sapere più solido. Allo stesso modo, Ingmar Bergman è un inquisitore dei nostri tempi, un acerrimo nemico di quello che Pierpaolo Pasolini chiamava “il laicismo consumistico che ci ha resi dei bruti, adoratori di feticci”, ma altrettanto fervido oppositore della tradizione bieca, che porta avanti idee solo “perché si è sempre fatto così”. Lucido psicanalista sine laurea, Bergman come Socrate scandaglia l’animo umano alla ricerca di quel qualcosa che possa salvarci dall’abisso del cinico raziocinio, riportandoci ad una autentica dimensione della spiritualità.

mercoledì 3 giugno 2009

La Triste Realtà Dell'Irreale: "The Truman Show"

Irene Deltetto

Quando pensiamo ad un’opera visionaria e geniale nella sua genialità, la prima persona a cui pensiamo è George Orwell, con il suo “1984”. Se la risposta fosse un’altra sarebbe comunque l’opera di uno scrittore, di un giornalista, magari di uno scienziato. Mai penseremmo ad un film. Invece è proprio di un film che voglio parlare. Questo film è “The Truman Show”, del 1998.

In pochi si ricorderanno bene di questo film, che fu accolto in modo piuttosto tiepido anche quando uscì nei cinema. In un momento ancora libero da Grandi Fratelli, Isole dei Famosi e chi ne ha più ne metta, Peter Weir (regista dei più conosciuti “L’attimo Fuggente” e “Master & Commander”) girò un film fondato proprio sul morboso desiderio degli uomini di spiare dal buco della serratura e, parallelamente, all’insito istinto della curiosità e del desiderio di verità. Si contrappongono due figure: un uomo, Truman, appunto, l’Uomo Vero, che nasce e cresce all’interno di un set televisivo, un mondo creato a tavolino per lui, dove tutti lo possono spiare, appassionarsi, crescere con lui, che però si pone delle domande, vuole capire chi è, da dove viene, perché alcune cose accadono, e, dall’altra parte del teleschermo, gli spettatori che seguono, trattenendo il fiato, ogni sua mossa. Tutti i gesti, i comportamenti di Truman sono seguiti e, talvolta, corretti, nella misura in cui l’imprevisto potrebbe nuocere allo share del programma. Nel “Truman Show”, il reality del film, passano una serie di personaggi che rappresentano diversi approcci al problema posto dal film: c’è la moglie, che ci appare un’attrice senza la minima considerazione per i sentimenti del protagonista, il migliore amico, che rispetta il copione cercando però di parlare con Truman e entrarci per quanto possibile veramente in contatto e la ragazza conosciuta al liceo, mai dimenticata da Truman, che al tempo cercò di liberarlo dall’inganno e perciò subito eliminata dal reality, che rappresenta in qualche modo il desiderio di sapere dell’uomo, di sapere di più. Solo la pubblicità, fatta dagli attori durante la ripresa, in modo da non perdersi nemmeno un secondo della soap, interrompe l’idillio di questo mondo quasi invidiabile.

Questo film è in apparenza molto frivolo e leggero, dalla patinata copertina hollywoodiana, e forse è proprio questa la sua forza, perché allo spettatore attento rivela con estrema delicatezza ciò che si trova nell’animo umano. Alla luce di questo film è facile capire perché in Italia al momento la preoccupazione maggiore (e drammaticamente anche uno degli argomenti di conversazione più gettonati) sia con chi sia andato a letto il premier. Perché in fondo tutti vogliamo spiare dal buco della serratura. E se questo morboso desiderio è persino legittimato dall’opinione pubblica e dalla stampa, che cosa ci può essere di meglio?

giovedì 28 maggio 2009

Democrazia Cinese, di Pistole E Rose...

Antonio Rigano

Non mi sembra il caso di dover introdurre i Guns N’ Roses… A riguardo mi piacerebbe ricordare un aneddoto, una cosa che mi è capitata qualche anno fa: ero al mare e avevo conosciuto un ragazzo più grande, simpatico per carità, ma innegabilmente tamarro …
Ci eravamo trovati a parlare di musica, era decisamente di tendenze più “untz-untz” delle mie, si dilettava come dj e impazziva per il Diabolika, M2O e compagnia bella. Devo ammettere che in tale ambito non sono mai stato ferratissimo e non sapevo come approntare una discussione sempre sull’amato tema musicale che ci permettesse di comunicare e parlare la stessa lingua, una κοινή (mi scuso per il grecismo ma non ho potuto resistere). Ecco, timidamente ho cominciato a snocciolare le band con cui sono cresciuto…"mi***ia! I Ganz enn Rroses!" (leggi proprio come è scritto), avevo trovato il punto di contatto. Cominciava a raccontarmi delle fasi della sua adolescenza in un quartiere malfamato di Messina Devo dire che la cosa mi stupì parecchio (mi stupì anche la giusta pronuncia del titolo della prima canzone del primo album della band), tanto da ricordarmene in queste circostanze.

I Guns sono sempre stati un po’ eccesso, ed anche compiaciuto “diciamolo”(La Russa docet)… ma il rock è eccesso!

Il nuovo album non contraddice il diktat, ma è giusto anticipare che la forma sarà nuova: le Pistole sono “altre”, per chi avesse l’orologio fermo al ’93-’94, è duro dirlo, sotto l’insegna di questa band è rimasto solo il cantante degli origi
nari componenti. I nuovi Guns non suonano più l’ hard rock di prima (spero nessuno confonda hard rock e metal…). Le etichettature (musicali e non solo) sono sempre difficili e imprecise, una sorta di violenza della razionalità umana a voler ingabbiare tutto per osservarlo meglio, come un animale allo zoo. Ma piuttosto che non dir niente per la paura di sbagliare, è giusto provare a darne una: easylistening-industrial-numetal, con venature di pop e, ovviamente, forma mentis hard rock.

Un sound veramente saturo: orchestra, coro e stuolo di ingegneri del suono per parti campionate, sovraincisioni, effetti elettronici, brusii scenici e ombre di armonie di “classica”da usare come tappeto su cui lasciar camminare i brani e dare un senso filmografico al tutto.

Un panino (più che) imbottito, che può apparire come un’ammucchiata di ingredienti e gusti non per tutti facilmente accostabili e digeribili, ma q
uesta è comunque una caratteristica dei Guns di Axl, che si son sempre prefissati di dare, e dare tanto:

  • come quantità (la durata media delle canzoni non è mai stata breve, né quanto meno quella degli album)
  • come espressionismo sonoro, inteso come violenza o melassa sentimentale, dipende a che sguardo critico fare riferimento (personalmente non mi dispiacciono entrambi gli aspetti)
  • come novità. Da certi critici musicali i Guns N’ Roses, quelli della vecchia formazione, sono considerati uno dei pilastri della terza rinascita dell’hard rock: nuova linfa, innovativa attitudine punk nichilista atta a sdoganare i vecchi stilemi o a reinterpretarli, testi fluviali che di pari passo al tessuto musicale scorrono dall’inizio alla fine del brano, in un rincorrersi di parole, tale che ci si potrebbe aspettare che il nostro dottor Rose prima o poi si potrebbe riciclare rapper! (Ricordiamo che nel lontano ’75 Steven Tyler, cantante degli Aerosmith, una delle guide spirituali di Axl,[per chi non ricordasse o non sapesse i Guns hanno cominciato come band di supporto agli Aerosmith {se non si fosse notato ho un debole per le parentesi}] ha dato le basi del crossover con “walk this way”)


Axl è magniloquenza, ogni cd dove c’è il suo zampino tende al monumentale, alla costruzione orchestrale minuziosa, arguta, studiata nei minimi particolari (e forse per alcuni quindi meno diretta ed ampollosa), dove l’intrecciarsi degli strumenti è esaltazione dell’ensemble e dei singoli “personaggi”. Ecco questo “Chinese Democracy” si scosta dall’impostazione compositiva degli storici Guns: l’importanza e il virtuosismo dei singoli prima era maggiore. Certo la predominanza di Axl nei vecchi Guns non era così scontata (cavoli Slash non è una comparsa! [per inteso il chitarrista solista, io lo dico, non si sa mai][quello che alla presentazione di “Guitar Hero” si è fatto una partita con Bill Gates…]), doveva sicuramente mediare… e per la storia della musica ormai scritta è stato un bene! Questa “retorica” e ridondanza che alcuni critici affibbiano ai vecchi Guns N’ Roses l’ho sempre accettata di buon grado, anzi difesa come tripudio di vitalità ed energia convogliata nel mezzo musicale per offrirci un carnevale di colori e sensazioni. “Chinese Democracy”, ossimoro ben concepito, non ha ancora fatto vacillare questa mia convinzione anche se, qualche volta, durante l’ascolto, aleggiava, tra orecchie cuore e cervello (credo che siano componenti indispensabili per potersi definire almeno un buon ascoltatore-conoscitore), il dubbio che questa magniloquenza, questa pienezza, questa voglia di epico, in fondo nascondesse un certo horror vacui...

Ma bando alle ciance andiamo a vedere i pezzi:

1- Chinese Democracy E’ la title-track, apre atmosferica e si lascia andare al teatrale, esplode in un riff probabilmente non dei più fantasiosi, ma ben pompato tanto da riuscire a coinvolgere, già da qui si intuisce la tendenza dei nuovi Guns al metal, quello “nu”. Assolo che strizza l’occhio a Morello (a mio avviso forse la più innovativa chitarra delle attualmente in circolazione), cantato che ricorda “it’s so easy”però sincopato e con la voce acuta sovraincisa.
2- Shackler's Revenge Intro stridente e cacofonico, che ricorda un po’ i Prodigy e si rifà ai nuovi stilemi dell’industrial, voce bassa alla Type 0 Negative con sovraincisione della classica voce di Axl, parte corale decisamente power-metal, assolo dissonante e nichilista ancora di influenze morelliane. Si tratta della canzone che necessita di più ascolto per essere digerita.
3- Better Apre con una melodia, un po’ da carillon, costruita con elettronica stridente, che sarà il ritornello della canzone; poi prende vigore, fino a diventare in certi stacchetti nu-metal urlato. Primo assolo chitarristico destrutturato, un po’ come i precedenti, poi uno più melodico (ma sicuramente Slash riusciva meglio in tale compito)
4- Street of dreams Intro al pianoforte che tradisce il culto per Elton John (guardatelo al pianoforte nel video di “November rain”… con quegli occhiali chi voleva imitare?) e quello meno nascosto per Freddie Mercury (tra l’altro ha cantanto “Bohemian Rhapsody” al suo memoriale proprio insieme a Elton John). Archi, tastiere e assolo vibrante e romantico: almeno una ballata ci doveva essere nel cd
5- If the word Intro flamenco con tempo hip hop e campionamenti vari, sintetizzatore e tastiere. Una voce in lontananza che intona una nenia (mi viene il sospetto che l’idea sia stata rubata da “the memory remains”dei Metallica), assolo che si appoggia ad atmosfere che ricordano il caro Santana, forse per lo spirito un po’ latinoamericano del pezzo.
6- There was a time Apre espressionista e si lascia subito andare a “frivolezze” elettroniche, una synth-orchestra accompagna tutto il brano e da effetto scenico. Riff potente, al solito un po’ nu-metal, prende poi le tonalità di una power-ballad: virtuosismi vocali, orchestra mentre la chitarra sembra più addomesticata (bene o male?) e veramente piacevole anche se solo per poco veramente in primo piano
7- Catcher in the Rye Anche questa una ballata, anche questa con massiccio uso di pianoforte, una impostazione che ricorda un po’ gli Aerosmith di “Just push and play”. Intorno ai 2 minuti un pezzetto di archi toccante e subito dopo un azzeccato “lalala” di Axl ed ad incalzare un’illuminazione del chitarrista. Ancora tante incisioni sovraincisioni della voce di Axl, ancora “lalala” e nuovo sfoggio di bravura chitarristica.
8- Scraped Apertura in fraseggio vocale (tra Axl e coro o tra Axl e se stesso grazie ai tecnici del suono? probabilmente la seconda ed è lodevole l’idea, sperando che non sia per queste “genialate” che gli anni sono passati nell’attesa di questo album…). Riff esplosivo
9- Riad N’ the bedouins Un inizio ancora una volta scenico, poi riff aggressivo, accompagnato da voce potente, forse con impostazione “lamentoso-grunge” (lo so mi faccio ridere da solo con questa terminologia, invito a suggermi migliore terminologia o un buon vocabolario[se è pesante lasciare un commento…]), cambi di tonalità improvvisi e assolo nuovamente abbastanza acido e dagli effetti molto “rage against the machines” che accompagna per un finale di spirale caotica
10- Sorry brano dall’atmosfera liquida, grazie agli effetti elettronici, che si modula in crescendo con due “creste” (per rimanere in ambito sonoro ma spostandosi verso la fisica) dalle non nascoste tendenze nu-metal
11- I.R.S Si tratta di un brano in continua tensione che si concede piccole pause, per riprendere il fiato, di estrema delicatezza, forse l’intento era quello di riproporre musicalmente l’ossimoro del titolo dell’album…
12- Madagascar Superbo arrangiamento orchestrale: ottoni e archi all’inizio, ritmo pop da radio, voce volutamente maltratta per imprimere pathos, chitarra urlante, registrazioni di due discorsi di Martin Luther King Jr. e di pezzi tratti dai film “Mississippi Burning" e "Cool Hand Luke”, qualcuno ricorderà ascoltando la traccia una voce familiare… Axl si cita da solo: è la voce che si sente in “civil war” di Use your illusion II (ndr il cd uscito insieme a Use your illusion I nel lontano ’91). Bellissima la chiusura con gli archi.
13- This I love Inizio a voce e piano; ancora pathos, ma forse più forzato del dovuto, forse meno sincero. Assolo carino ma non coinvolgente. Forse è con questa canzone che Axl si autopunisce: il chiaro modello ispiratore sembra la “musica classica”, e a qualche ascoltatore il tentativo di accostamento con questo brano può risultare ridicolo (non mi escludo a priori da questa categoria di ascoltatore…)
14- Prostitute Altra power-ballad. Al 14° brano sembra quasi una sfida all’ascoltatore se è in grado di reggere… ma è questo il rischio che si corre quando si fa molto… A parte queste considerazioni, non significa che il brano manchi di verve, di sua propria personalità, di sua originalità, anche se l’impostazione delle ballate di Axl nel corso dell’ascolto del cd le abbiam già assimilate e questa non si scosta troppo


Complessivamente, l’applauso va:

  • al coraggio di Axl per la pubblicazione: purtroppo l’attesa è stata troppa per poterla giustificare, qualunque livello qualitativo il cd avesse potuto avere! E’ facile “tradire” le aspettative di un fan… E penso che sia ancora più difficile riuscire a farne uno tanto pregevole quando si parte dal presupposto di dover fare un capolavoro, e si fissa a priori un programma per qualcosa di epico. Immagino che Axl si sia deciso di pubblicare più che altro tirato per il collo dalla casa discografica e spinto da una certa resa di fronte al fatto che la “levigatura” (ma lui penso che più che smussare preferisca aggiungere..) poteva essere eterna, senza un reale punto di arrivo.
  • all’innovazione stilistica apportata alla band
  • agli ingegneri del suono per la realizzazione prima che per la reale efficacia dei brani che comunque non possono essere paragonati a quelli di “Appetite for destruction” (ndr loro primo album datato 1987, ormai annoverato negli annali della musica rock)

mercoledì 20 maggio 2009

Telegraph Road: Musica

Matteo Scarcia

È un fischio che parte da lontano e che lentamente si avvicina.
La prima cosa che s'intuisce è che c'è qualcuno che avanza con passo incessante sì, ma timoroso allo stesso momento.
Poi si decide: si pianta, pianta l'asta nel terreno e inizia la sua opera meravigliosa. Una città dal nulla, con tutti i pregi e i suoi difetti.
Era la città nuova e piena di burocrazia ma era la città della vecchia strada del telegrafo, era lei, l'unico vero punto di riferimento, l'unica cosa che contava davvero. Quella strada era la salvezza, ma ora le cose stanno cambiando: il tempo scorre e l'uomo crea il male da se stesso e così anche la città è contaminata dalla tristezza del lavoro-casa-lavoro: 6 corsie di traffico allora, diventano l'emblema.. Di nuovo ci si avvia allora verso un nuovo cambiamento. È un po’ come guardare la propria ragazza negli occhi e capire che qualcosa sta cambiando e che nulla è più genuino come un tempo, come lo era la vecchia strada del telegrafo.

"Sai che dovrei dimenticare presto ma ricordo quelle notti
Quando la vita era solo una scommessa in una corsa tra le luci
Avevi la testa sulle mie spalle e le mani tra i miei capelli
Ora sei più fredda, come se non t'importassi
Ma credimi piccola e ti porterò via
Da queste tenebre, nel dì
Da questi fiumi di fari, questi fiumi di luci
Dalla rabbia che vive nelle vie con questi nomi
Perchè ho acceso ogni luce rossa sul viale dei ricordi
Ho visto la disperazione esplodere in fiamme
E non voglio vederla mai più..."

È la fine dunque, la conclusione dell'opera. La città ormai è preda di se stessa, ha assunto un'anima terribile, un'anima d'insofferenza che sta avendo il sopravvento sull'essere degli uomini. Ormai la contaminazione è terminata e non si riesce più a scorgere nemmeno l'idea della vecchia strada del telegrafo.



Il vuoto lasciato qui sopra serve a distaccare la mia interpretazione da questa poesia in musica. Io non posso esprimere commenti adeguati ai vari passaggi dell'assolo. Potente, imperioso, deciso, arrembante, devastante, affascinante. È bello, nel senso che brilla di propria luce, che è la bellezza musicata, è la perfezione musicale, è il genio che si traveste da pentagramma e incide magiche note e melodie sublimi.
Quando si arriva a tanto, non ha senso andare oltre.
Il mondo si è fermato in quei 14 minuti nei quali la chitarra alata fende il cielo e tocca le stelle per poi trasformarsi in aria ed in musica che accarezza l'anima.
E dunque cosa fare? Inchinarsi di fronte al genio.
Telegraph Road: Musica.

martedì 19 maggio 2009

Storie Dalla Strada

Giorgia Gabbolini

Capita spesso nelle città abbastanza grandi, di camminare per strada e sentire una musica di sottofondo che accompagna i nostri pensieri. Una canzone che, proprio in quel momento, sembra essere adatta per descrivere il nostro stato d’animo.

Ecco che , poco più in là, incontri un giovane ragazzo con la sua chitarra in mano che, per qualche spicciolo, si esibisce in uno spettacolo senza palco, o meglio, un palco diverso: la strada.

Non capita quasi mai di ritrovare la stessa persona nello stesso posto. Sono girovaghi, non hanno una dimora fissa. Una volta esibitisi in quel determinato posto, hanno esaurito il loro dovere e si dirigono verso un’altra città che abbia bisogno di musica e della loro presenza.

Ciò che accomuna tutti gli artisti di strada è l’espressione. Se qualcuno comincia a fissarli negli occhi, riuscirà a vedere dietro quello sguardo un’intera vita, un mondo fatto di note e di coraggio, di angoscia e di liberazione, che trasmettono a chi si ferma ad ascoltarli e stoppa per un attimo la propria vita. Per quanto riguarda il look, è libero, ma ha sempre un piccolo particolare che rimanda alla libertà, ad un essere fuori dal normale e dalla società: il capello rasta, i pantaloni strappati, un trucco insolito, una custodia per strumenti piena di spille etc..

Infine, un altro particolare, è la presenza di un animale, di solito un cane. Tra di loro viene a crearsi un legame indissolubile, perché entrambi affrontano insieme tutti i pericoli che questo tipo di vita produce. Un animale, che diventa confidente, l’unico in grado di saper ascoltare in questo mondo in cui gli esseri umani si confidano mediante apparecchi tecnologici.

Gli artisti di strada hanno scelto la solitudine, ma non vivendo da eremiti, bensì proprio in mezzo al caos, alla fretta delle persone, alla confusione dei pensieri, seguendo la via della riflessione.
Tutto questo me l’ha confidato proprio uno di loro, in uno di questi giorni di maggio, dove i fiori sbocciano ed i musicisti cominciano a suonare. Si fa chiamare “Remì”, ma il suo vero nome l’ha perso da molto tempo, precisamente da quando ha deciso di abbandonare la sua vecchia vita.
Ha trascorso i suoi primi 15 anni dentro una villa gigantesca, circondato dal lusso, da ordini da eseguire e da poco amore. Suo padre è un ricco inglese, diventato tale grazie ad una catena di alberghi che fruttano ogni anno moltissimo denaro. Remì non ne poteva più, voleva fuggire da quelle mura, vedere cosa esisteva oltre. Cosi ha abbandonato tutto. Una sera è scappato e non è più tornato, suo padre non ne vuole più sentire parlare di lui. Un figlio che non ama il denaro, non vale la pena di essere riconosciuto. Da quando ha varcato quei cancelli, ha conosciuto tantissime persone, ha letto libri, ha lavorato, ha conosciuto donne, poi ha scelto la strada.

Di tutti gli oggetti che gli appartenevano, ha tenuto un flauto a traverso, la passione della sua vita. Con i pochi soldi rimasti, si è comprato un elegante vestito da sera, farfallino incluso-“bisogna essere sempre eleganti quando ci si esibisce, i miei spettatori pagano il biglietto” -rispose alla mia domanda sul perché di tutta questa eleganza.- “ma quale biglietto?” -chiesi io- “il peso della vita, che io cerco di alleggerire”- rispose ancora. Aveva ragione Remì, in quel momento il mio l’aveva tolto. Ci salutammo e,mentre camminavo accompagnata dalla sua musica, mi voltai e lo fissai consapevole del fatto che non l’avrei rivisto più. Notai un particolare; ai piedi aveva un paio di scarpe da ginnastica tutte consumate che per niente al mondo sarebbero andate bene con il suo elegante vestito. La tua voglia di libertà Remì, la tua voglia di camminare e di correre verso un mondo che tutti sogniamo. Chissà quante altre strade percorrerai, chissà quanti altri pensieri percorreranno la tua mente. So che per un istante hai percorso i miei.

domenica 10 maggio 2009

David Knopfler: Rivalutazione Di Un Artista

Matteo Scarcia

In fondo bisogna capirlo: è oggettivamente sfigato. Ma non inteso nel senso più diretto e offensivo del termine (che in realtà gli si addice), ma nell'altro: sfortunato. Non poteva certamente aspettarsi un futuro così avverso quando nel lontano 1980 decise di abbandonare Mark e compagni (i compianti Dire Straits) a causa di dissidi con l'odiato fratellone (per la cronaca: durante la realizzazione in studio dell’album successone Making Movies). Mark, il Knopfler quello vero, a fare soldi a palate e che diventa forse il chitarrista più bravo, mentre lui, il povero David, il Knopfler dei poveri, arranca componendo dischi anche di pregevole fattura, magari ultra apprezzati dalla critica di tutto il mondo, ma disgraziatamente rimasti ai margini di quello che poi, per un artista conta davvero, se decidi di fare della tua passione il tuo lavoro: il sistema del mercato discografico. Le radio. Ovvero i dindini, o li sordi (come preferite). Il povero David, e per povero s'intende in tutti i sensi, è stato dunque costretto a fabbricare colonne sonore televisive scadenti per racimolarne un po'. E intanto Mark, il Knopfler famoso, ricco, bravo diventava solista (o lo era sempre stato?).

Ma ora intendo anche difendere il povero David: ha lasciato Mark perché la fama, i soldi non producono arte ma la snaturano. Non è più creare arte ma venderla. David dice che ai tempi di Making Movies, i Dire Straits erano ormai già diventati una macchina commerciale e lui decise di tirarsene fuori. Io gli credo. Perché poteva restare dov'era e fare davvero la sua fortuna. Ma lui no...Era una questione di principio e di valori: quel cattivone del produttore (Ed Bicknell) gli scartava continuamente ciò che lui proponeva e quel monello del fratello lo oscurava suonando sopra le parti che David aveva curato. Era giusto andarsene. Il povero David è un uomo di valori: è membro attivo di Greenpeace e di Amnesty International e non lo sbandiera.

Il povero David non inventa nulla nel mondo della musica ma sguazza nel mondo del rock blues con assoluta dignità. I temi ci sono tutti e sono rilevanti: ad esempio, nella canzone Karla Faye, ragazza costretta a prostituirsi in Texas a soli 10 anni e a farsi di eroina a 12; dopo 12 anni di prostituzione uccise due persone con un complice e fu condannata alla pena di morte nonostante tutti fossero a conoscenza della sua conversione al cristianesimo nel braccio della morte. Prima donna dopo 100 anni ad essere messa a morte: un certo George W. Bush, in corsa per la Casa Bianca non poteva certo mostrarsi tiepido nei confronti di un'assassina.

Musicalmente il giudizio è controverso: il suo è un rock blues pacato e riflessivo, senza eccessi, poco incisivo, però, in alcuni punti che forse meriterebbero maggiore decisione. Domina l'armonia, dolce melodia che sembra cullare. C'è una sorta di antitesi tra l'enorme armonia della sua musica e la forza dei suoi testi. Una cosa è certa: per quanto ci si possa provare è quasi impossibile giudicare il povero David senza confrontarlo con Mark. La voce, innanzitutto: è molto simile a quella del fratello. Al primo ascolto, però, le melodie del povero David appaiono troppo similari a quelle di Mark solista, ma con una differenza: Mark dà il meglio di sé quando "fende l'aria" con la chitarra ("Speedaway at Nazareth", "What It Is", "Silvertown Blues" e "Boom, Like That") salvo qualche eccezione come "Golden Heart", "Sailing To Philadelphia" e "Back To Tupelo". Il povero David, invece, s'inserisce laddove il fratello non riesce a convincere con canzoni di grande fascino ma nelle quali sembra sempre mancare qualcosa: è tutto ben amalgamato, è tutto ben concepito, tutti i cd fondamentalmente omogenei ma…sono i ma il problema del povero David. Ci si perde tra i ma e alla fine ci lascia il retrogusto.

In generale comunque, dei buoni dischi prodotti che se fossero stati composti da qualcun altro, con un maggiore supporto della propria casa discografica, avrebbe potuto fare meglio. Ma questo è un altro discorso che magari tratteremo meglio in seguito. Io intanto, proseguo nella mia ricerca di quegli artisti che sembrano dimenticati anche dalle loro madri. Ripeto allora il mio intento: salviamo il povero David. Rivalutiamo David Knopfler.

Discografia essenziale: Release (1983), Behind the Lines (1985), Cut the Wire (1986), Lips Against the Steel (1988), Lifelines (1991), The Giver (1993), Small Mercies (1995), Wishbones* (2001), Ship of Dreams (2004), Songs for the Siren (2006).
* in grassetto gli album consigliati

giovedì 7 maggio 2009

Bermuda Acoustic Trio: Chitarra E Cabaret

Matteo Scarcia

Bermuda Acoustic Trio: non so perché ma oltre alla consueta idea del triangolo delle Bermuda, il nome del gruppo mi faceva venire in mente un trio da festa dell'oratorio o da sagra paesana. E nella realtà, almeno fino allo scorso anno, non posso certo dire che si discostassero molto da quella mia iniziale idea.

Era questa l'immagine che avevo nella testa, quando mi capitò tra le mani “Live at the Johnny Fox & Echò Music Pub”. Decisi di ascoltarlo attratto principalmente dai suadenti titoli dei brani: Sultans of Swing dei Dire Straits, Your Song di Elton John, Tears in Heaven di Eric Clapton, Wild World di Cat Stevens, Little Wing di Jimi Hendrix e addirittura Marcia alla Turca di Mozart.

Sembrava essercene davvero per tutti i gusti: da una parte maestri della chitarra e dell’altra mostri sacri della musica contemporanea e non. E poi, quella chitarra in copertina… che fossero artisti della chitarra? Chi sono costoro?

Innanzitutto sono italiani. I Bermuda Acoustic Trio sono un gruppo di virtuosi della chitarra (e del basso): due chitarristi, Giorgio Buttazzo e Gabriele Monti, e un bassista, Kamsin Giordano Urzino. La prima cosa che salta all'orecchio, ad un primissimo ascolto anche distratto, è la loro abilità nel rivedere qualunque genere di musica e di mescolarlo in modo tale da creare un suono sempre inaspettato e, a tratti, sorprendente. Ecco, questo è il punto, sorprendono: qualunque cosa riguardante la chitarra con loro, sembra si possa fare, anche utilizzarla capovolta, come percussione. Dalla musica classica di Mozart e di Rossini agli spot pubblicitari. Questi “pazzi” suonano a mille all'ora, giocano, scherzano ed improvvisano (o almeno così pare). Stupisce la straordinaria pulizia del tocco delle corde delle due chitarre acustiche e del basso, la cui funzione non è semplicemente ritmica ma anche, e soprattutto melodica. Ma facciamo un po’ di storia.

I Bermuda Acoustic Trio, narra la leggenda, nascono così, un po’ per caso e un po’ per gioco, durante il sound check di un concerto di Pierangelo Bertoli: i tre iniziarono ad improvvisare, il pubblico apprezzò, loro stessi si piacquero e ne nacque un mini concerto casuale. Era il 1997. Sono passati ormai ben 12 anni e, nonostante il successo ottenuto a livello di pubblico (oltre 2000 concerti e la partecipazione a numerosi tra i più importanti festival chitarristici italiani ed europei), di critica (Jeff Healey, che nel 2001 suonò assieme a loro, li definì “la più divertente band acustica che io abbia mai sentito”), di vendite (ben 25000 cd venduti ai loro concerti) e la partecipazione a Mai Dire Martedì lo scorso anno, il gruppo è privo di contratto discografico. Una scelta, un modo per restare liberi di fare ciò che piace, lasciandosi guidare dall’ispirazione (o forse, anzi meglio, dall’improvvisazione).

I Bermuda annoverano nella loro discografia 4 album: Live at the Johnny Fox & Echò Music Pub (1998), Livin’ Studio (2000), Naturally Live (2003) e Bermuda Plays Pink (2006).
Live at Johnny Fox e Naturally Live possono essere definiti come degli spaccati della loro abilità nel suonare dal vivo, album che sottolineano la loro straordinaria capacità d’improvvisazione e di empatia con il pubblico presente. Livin’ Studio è invece la riproposizione in studio delle loro cover, solitamente (lo ricordiamo) eseguite dal vivo. Bermuda Plays Pink, infine, è un omaggio ai Pink Floyd.

La chitarra (ed in particolare quella acustica) ha sempre un suo fascino particolare e questi maestri, da un lato, la nobilitano con esecuzioni pregevoli e virtuosismi unici e inaspettati; dall'altra, però, possono apparire come dissacratori per il loro continuo scherzare, per le loro imitazioni del mondo animale nel mezzo di assoli che hanno fatto la storia della musica.
Sono artisti che hanno fatto del live, del contatto con il pubblico, la loro caratteristica principale e fondante. Amano suonare e amano divertire e divertirsi: il pubblico lo sa, lo nota e nascono concerti assolutamente divertenti e quasi spassosi, pur mantenendo una qualità compositiva e propositiva decisamente elevata.

In generale, si possono definire un po' come dei cabarettisti della musica, o meglio, come cabarettisti in musica, seguaci, per un certo verso, della più famosa Banda Osiris.

In ultimo, voglio aggiungere che assieme a Savino Cesario e Andrea di Marco formano i Bermuda Circus, che rappresentano una sorta di estremizzazione della loro vena cabarettista.