venerdì 19 marzo 2010

Scuola al vetriolo: la black comedy americana dagli anni ’80 ad oggi

Elisabetta Rossi

Che la scuola sia il luogo disfunzionale per eccellenza dove meglio ambientare drammi e piccole tragedie quotidiane, è una lezione che il cinema ha imparato da tempo. Negli ultimi 30 anni il liceo è stato il teatro di elezione di uno dei più particolari generi americani, la commedia nera, ovvero quella commedia iconoclasta e crudele che mette alla berlina i “modelli” scolastici, che brucia le tradizioni e bagna gli stereotipi nel vetriolo, il tutto con un sorriso diabolico sulle labbra.

Partiamo con il capostipite cult del genere, il celeberrimo The breakfast club, successivamente reinventato da numerosi serial televisivi, in cui un piccolo gruppo eterogeneo di liceali - il secchione, la bambolina, lo sportivo, la disadattata e il teppista, come essi stessi si definiscono - si trovano a dover passare un intero sabato di punizione insieme: la scuola disabitata diventa, dunque, una sorta di limbo senza porte, in cui i ragazzi, che dovrebbero scrivere singolarmente un tema intitolato “Chi sono?”, guardano invece fuori da sé e, pur con fatica e scontri, instaurano un improbabile dialogo; affrontano a muso duro argomenti come il rapporto con i genitori, le aspettative, le speranze per il futuro, il sesso e la visione della scuola; il teppista Andy è il grillo parlante della situazione, il cono d’ombra, l’elemento “nero” che getta benzina sul fuoco delle contraddizioni scolastiche. Dal confronto usciranno uguali a prima, ma in un certo senso rigenerati e stimolati dal confronto.

Una ventata di cattiveria e humour nero la porta alla fine degli anni ’80 il controverso Schegge di follia - titolo originale Heathers, dal nome delle tre protagoniste “streghe” che spadroneggiano e dettano stile a scuola - : la quarta ragazza del gruppo, la fragile Veronica, deciderà di partecipare alla loro eliminazione fisica dopo aver incontrato JD, un altro teppista iconoclasta, che la aiuterà nell’intento, con esiti disastrosi e un’importante presa di coscienza finale.

Nel bellissimo Election, di fine anni ’90, troviamo invece uno scontro generazionale tra Tracy, una liceale brillante e desiderosa di popolarità candidata alla carica di presidente del comitato studentesco, e il suo professore di storia, che tenta invano di fermarne la scalata, quasi ne andasse della sua vita: entrambi useranno tutti i mezzi, anche illeciti, per ottenere quello che vogliono. Per la prima volta il personaggio perturbante è una ragazza, e per giunta una ragazza candida e integrata nel sistema: questo elemento apre la strada al leitmotiv dell’ironia sottesa e dei complotti sotterranei “a scomparsa”.

Con Donnie Darko, film di culto uscito l’11 settembre 2001, si introduce nella commedia nera l’elemento fantastico, legato alla predestinazione e ai viaggi nel tempo: il disadattato visionario Donnie Darko, incline all’abbattimento del sistema e al boicottaggio della sua scuola perbenista, viene visitato da un coniglio gigante che, dopo avergli salvato la vita, gli predice la fine del mondo; l’amore per una ragazza, Gretchen (che non a caso riprende il nome della donna del Faust di Goethe), lo condurrà alla comprensione di ciò che le sue percezioni possono far accadere.

Due film successivi, The dangerous lives of altar boys e Saved! trasformano la commedia nera in una critica feroce al fondamentalismo ideologico di certi istituti cristiani americani: il primo fotografa la vita spericolata, fatta di scherzi e bravate, di alcuni chierichetti liceali ai danni della suora preside della scuola, trasformata nella loro finzione fumettistica nel personaggio di “Suorzilla”; Saved! invece affronta con bonarietà e un pizzico di cattiveria temi come omosessualità, gravidanze indesiderate e disabilità nel contesto di una scuola cristiana, dove questa volta l’elemento perturbante è l’ebrea Cassandra, che con il suo acume da donna di mondo intaccherà i vincoli ipocriti di un mondo che è perfetto solo in apparenza.

Un caso a parte, che costituisce un ritorno al passato, è Mean girls, che la sceneggiatrice e interprete Tina Fey ha definito “una riscrittura edulcorata di Schegge di follia”, e che tuttavia introduce elementi nuovi: questa volta le contraddizioni del mondo liceale sono colti dall’ingenua Cady; arrivata dall’Africa e per la prima volta in una scuola americana Cady brucerà le tappe e si trasformerà da “aborto della giungla” in “scintillante Barbie”, al seguito delle ragazze più alla moda, fino a conquistare una propria identità abbattendo, con la sua grinta “giunglesca”, tutti gli stereotipi del caso.



Filmografia:


John Hughes (regia di), The breakfast Club, Usa 1985.
Michael Lehman (regia di), Schegge di follia, Usa 1989.
Alexander Payne (regia di), Election, Usa 1999.
Richard Kelly (regia di), Donnie Darko, Usa 2001.
Peter Care (regia di), The dangerous lives of altar boys, Usa 2002.
Mark Waters (regia di) Mean girls, Usa 2004.
Brian Dannelly (regia di), Saved!, Usa 2005.

venerdì 26 febbraio 2010

Avatar

Vincenzo Scrutinio

“All this was a long time ago, I remember, And I would do it again, but set down This set down This: were we led all that way for Birth or Death? There was a Birth, certainly, We had evidence and no doubt. I had seen birth and death, But had thought they were different; this Birth was Hard and bitter agony for us, like Death, our death. We returned to our places, these Kingdoms, But no longer at ease here, in the old dispensation, With an alien people clutching their gods. I should be glad of another death.”
T.S Eliot “The Journey of the Magi", Ariel Poems (1927)

“in verità, in verità ti dico che uno che non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: “Bisogna che nasciate di nuovo”
Vangelo secondo Giovanni, 3, 5-8

A partire dal 15 gennaio di quest’anno anche molti spettatori italiani si sono immersi nel mondo ideato dal regista James Cameron nel suo ultimo film, Avatar.

A quest’ora la maggior parte di quelli che stanno leggendo questo articolo avrà già visto il film quindi riassumerò per sommi capi i punti principali della trama. Nel XXII secolo, una grande corporation americana scopre il pianeta Pandora e vuole sfruttare la ricchezza del suo sottosuolo, ricco di un minerale particolarmente prezioso. Il giacimento più ricco, tuttavia, si trova sotto il gigantesco albero dove vivono gli abitanti di Pandora, i Na’vi. Un ex marine paralitico, Jake Sully, viene arruolato in sostituzione del fratello gemello morto improvvisamente per partecipare ad un progetto scientifico. Per mezzo di tale progetto, la corporation che lo finanzia intende cercare di convincere i nativi ad abbandonare il luogo in cui abitano in modo da poter entrare in possesso del minerale prezioso. A questo scopo la sua coscienza è trasferita in un corpo uguale a quello degli indigeni ed in queste sembianze il marine entra in contatto con i nativi. Inutile dire che riesce in un tempo relativamente breve ad entrare in perfetta sintonia con la tribù, imparandone gli usi e la cultura. I Na’vi vivono in piena comunione con la natura e riescono addirittura ad unire la propria coscienza a quella degli animali di cui si avvalgono per la caccia. Affascinato da questo Paradiso Ritrovato, Sully ne rimane conquistato ed arriverà non solo ad unirsi con la figlia del leader della tribù, ma ne diverrà anche il capo militare, dopo essere riuscito a domare la creatura più pericolosa di tutto il pianeta. Sotto la sua guida, i Na’vi riusciranno a sconfiggere la corporation ed i soldati alle sue dipendenze e Sully troverà una nuova vita nel suo nuovo corpo sul pianeta Pandora, rigettando definitivamente la sua civiltà originaria.

Il film ha scatenato un acceso dibattito negli Stati Uniti ed è stato sottoposto a critiche violente (per un esempio si legga l’articolo di John Podhoretz[1]). In molti si sono interrogati sul significato del film, arrivando ad alcune conclusioni di grande interesse. In questo articolo proverò a dare un mio piccolo contributo al dibattito.

La ricchezza degli spunti rende difficile trovare un vero filo conduttore: si sovrappongono sia temi a rilevanza potremmo dire politica, sia temi di carattere più filosofico. Tuttavia mi sembra che un tema sia stato trattato in modo approfondito e possa essere il filo conduttore per la comprensione dell’opera.

Il tema della rinascita si presenta come il fil rouge che potrebbe consentire una comprensione più profonda delle tematiche trattate nel film ed offre spunti di riflessione originali. Questo tema occupa, poi, un ruolo particolare nel cuore degli americani. Nel panorama religioso degli Stati Uniti i “rinati” nella fede sono una categoria di cristiani, appartenenti a varie confessioni, accomunati dal fatto di aver riscoperto la fede in un certo momento della loro vita. Essi arrivarono alla ribalta della scena politica nel 1976 quando il “rinato” James Carter venne eletto alla presidenza degli Stati Uniti[2]. Negli ultimi anni, poi, hanno avuto un ruolo essenziale nella definizione della stessa identità americana tramite il presidente George Bush Jr, rinato metodista, che ha fatto della fede religiosa un punto cardine della sua retorica. Nell’ottica teologica americana, il tema della rinascita assume un significato di redenzione e purificazione. L’individuo, e con esso la nazione stessa, ritorna a quella primigenia innocenza che aveva inspirato i padri fondatori, riappacificandolo con il mondo e con la sua missione salvifica. Un tema, quindi, centrale soprattutto in un periodo in cui il potere ed il ruolo internazionale degli Stati Uniti sembrano scricchiolare[3].

Ma torniamo al film.

Già a partire dalle prime immagini il tema si presenta agli occhi dello spettatore attraverso la morte del fratello di Jake. Proprio questa morte improvvisa e violenta del gemello porta il paralitico Jake Sully ad entrare in un progetto scientifico a cui era totalmente estraneo. Tuttavia, questo evento sembra avere un significato più profondo. La morte del gemello, sano ed istruito, rappresenta anche la morte della parte umana in senso culturale di Jake. Si tratta di un passaggio catartico in cui l’identità dei due gemelli si libera di quella parte artefatta caratteristica dell’identità umana civilizzata. Solo la parte più propriamente animale dell’uomo arriva su Pandora per prendere parte al progetto Avatar.

Questo tuttavia non è sufficiente. Anche il corpo deve elevarsi verso una forma più perfetta e, per questo, la stessa coscienza di Jake dovrà trasmigrare in un altro corpo. Il sonno è una fase transitoria e temporanea per questo passaggio. Il topos letterario classico cui si fa riferimento è quello del sonno come immagine della morte vera e propria (basti pensare al soliloquio di Amleto nel omonima tragedia, atto III, scena I ). Tramite il sonno, il protagonista si trasferisce nel suo nuovo corpo, biologicamente superiore a quello umano, per poter entrare nuovamente nella terra promessa di Pandora. Il passaggio, in questo caso, è però solo temporaneo in quanto Jake deve tornare nel suo corpo umano.

La rinascita di Jake non è ancora completa in quanto inizialmente la sua mente è ancora quella di un uomo, incapace di comprendere la comunione con la natura, e la divinità che in essa abita, ed ottenere la pace. Solo grazie all’intercessione di una figura femminile, versione selvatica di Beatrice, l’ultima parte umana del protagonista potrà essere purificata e finalmente accettata nella nuova realtà. Il passo finale per l’effettiva resurrezione è la sconfitta della morte e del male. Questo avviene in modo figurato quando Jake riesce a domare la Morte stessa, sotto le sembianze dell’uccello Ultima Ombra. Il ruolo che questo Messia risorto svolge in seguito nella lotta contro i soldati che intendono cacciare i Na’vi getta una luce anche sul titolo del film. L’Avatar , infatti, è una figura appartenente ad un poema sanscrito, il Bhagavad Gita, e nella religione indù il termine individua l’incarnazione di Dio o di una figura ad Egli assimilabile (solitamente Vishnu), che compare sulla terra in periodi di grave declino morale per ristabilire la giustizia. Come detto nel poema sopracitato: “Per la protezione dei giusti, per la distruzione dei malvagi e per ristabilire i princìpi della Giustizia Divina, Io mi incarno di era in era[4]”.

In questo punto il tema principale si intreccia con un altro tema: quello, ormai desueto nella filmografia americana, del “Messia bianco”. Parlare anche di questo tema andrebbe oltre l’obiettivo di questo articolo e quindi rimando all’ottimo articolo di David Brooks del 7 gennaio 2010 sul NYT[5].

Vi è però un problema: il vero corpo di Jake è ancora quello umano. L’ultimo passo per la completa rinascita alla vita non può non passare attraverso la Divinità stessa. Attraverso la completa comunione con il suo nuovo popolo eletto e passando letteralmente attraverso il mistero del Divino[6], l’umano abbandona definitivamente il proprio corpo per diventare qualcosa di Altro, di nuovo perfetto ed innocente.

Il film, dunque, cerca di accompagnare l’umanità verso un cammino di redenzione naturale, attraverso un’esperienza catartica volta a ripristinare la natura stessa dell’essere umano in quanto “parte” . Questa nuova ricerca del Paradiso Perduto, tuttavia, richiede un processo doloroso di distruzione dell’identità umana artificiale, per poter ottenere una nuova e piena comunione con il tutto. Se Jake riesce in tale percorso, Cameron stesso sembra mostrare che tale elevazione è un percorso elitario destinato a pochi eletti. Non sembra esserci spazio per una redenzione nella società ma, anzi, essa passa attraverso un distacco radicale da essa. In questo Cameron non sembra dare speranza alla nazione americana, lasciando un po’ di speranza solo a pochi individui. A coloro che non rinunciano in toto alla loro identità umana il Paradiso è precluso. Sembra di ascoltare ancora una volta l’ammonimento evangelico “è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio[7]”.

Note

[1] John Podhoretz, “Avatarocious”, Weekly Standard, 28/10/2009 http://www.weeklystandard.com/Content/Public/Articles/000/000/017/350fozta.asp?page=2
[2] Emilio Gentile, “La democrazia di Dio”, Laterza, 2008, pag 80-81
[3] A tal proposito si legga: Lucio Caracciolo, “Sogno Americano e sonno europeo”, in Limes, vol 1, 2010, pag 7-24
[4] Per riferimenti ed approfondimenti rimando a http://it.wikipedia.org/wiki/Avatar_(religione)
[5] David Brooks, “The Messiah Complex”, NYT, 7/1/2010, http://www.nytimes.com/2010/01/08/opinion/08brooks.html?th&emc=th
[6] Per un interessante analisi della religion “paneistica” in “Avatar” si veda, per esempio: Ross Douthat, “Heaven and Nature”, NYT, 20 /12/2009, http://www.nytimes.com/2009/12/21/opinion/21douthat1.html?_r=2&th&emc=th
[7] Vangelo secondo Matteo, 19, 24


martedì 2 febbraio 2010

Shakespeare E La Scienza Triste

Vincenzo Scrutinio

“Ci piacerebbe credere che sia l’amore a determinare il nostro destino, o che i veri fattori formativi che dirigono la nostra vita siano i grandi sogni e la passione dell’anima o i progressi delle scienze tecnologiche. Invece, nel vivere reale, solo le idee del business sono di fatto sempre presenti, dalla soglia di casa alla scrivania in ufficio, dall’alba al crepuscolo.”
J. Hillman, Forme del Potere (1995), in U. Galimberti “I miti del nostro tempo” (2009).

In questi giorni si concludono le rappresentazioni dell’opera di Shakespeare “Il Mercante di Venezia”, al Piccolo Teatro di Milano (regia di Luca Ronconi). Come sempre Ronconi colpisce il proprio pubblico. Una scenografia ridotta all’essenziale e personaggi dai tratti incredibilmente marcati accompagnano lo spettatore per le tre ore e quaranta (più o meno) minuti della rappresentazione, mantenendo viva l’attenzione nonostante la lunghezza dell’opera.

Come ben sapete, la piece narra di Antonio, ricco mercante veneziano, che si impegna ad aiutare l’amico Bassanio nel tentativo di conquistare la mano della ricca e bella Porzia, la cui sorte matrimoniale dipende da una lotteria di tre scrigni in uno dei quali si cela il ritratto della bella ereditiera. Per aiutare l’amico, Antonio è costretto ad indebitarsi con l’ebreo Shylock il quale gli chiede come penale in caso di mancato pagamento una libbra di carne “di quella più vicina al cuore”. Dato che sembra che le navi di Antonio siano state tutte affondate nel viaggio di ritorno, Shylock richiede senza misericordia il pagamento della penale scritta nel contratto, anche come vendetta per la fuga della figlia con un cristiano, Lorenzo, amico di Bassanio. Solo grazie all’intervento di Bassanio, che nel frattempo è riuscito a vincere la sorte ed a sposare Porzia, ed all’intervento di quest’ultima sotto le mentite spoglie di un giovane avvocato di Padova, la vicenda ha un lieto fine per il mercante. Grazie ad una serie di cavilli, Porzia, infatti, riesce non solo a salvare Antonio ma anche a fare in modo che Shylock venga punito per la sua crudeltà impietosa, con la perdita di metà dei suoi beni, affidati ad Antonio affinchè li consegni alla figlia dell’ebreo alla sua morte, e con la conversione forzata. La vicenda si conclude a Belmonte nella villa di Porzia, dove ella rivela il suo travestimento ed avvisa Antonio che due delle sue navi sono inaspettatamente giunte in porto.

La trama si sviluppa attorno a due luoghi ricchi di significato. Il primo è la città di Venezia, città mercantile per eccellenza , dove Antonio recita , secondo le sue stesse parole, il suo ruolo “triste”. Il secondo è la realtà di Belmonte, luogo fatato è magico dove vive Porzia e dove i suoi pretendenti devono cimentarsi con la lotteria stabilità dal suo defunto genitore. Sebbene Ronconi osservi, in realtà, una forte somiglianza tra i due mondi in quanto in entrambi il ruolo del denaro è centrale mi sembra che vi siano una serie di marcate differenze. A Venezia il denaro occupa un ruolo cardine nella definizione delle relazioni sociali e determina la sorte stessa degli uomini. Basti pensare al contratto tra Shylock ed Antonio, in cui il mercante pone come garanzia della somma prestata (3000 ducati) il suo stesso corpo che sarà richiesto a gran voce dal creditore alla scadenza del contratto. Bassanio, conducendo una vita al di sopra dei suoi “poveri mezzi”, si indebita fino al collo fino a sperare nell’opportunità della lotteria a Belmonte. Già da questo momento, Belmonte appare estraneo al mondo mercantile, dominato dal calcolo e dal valore monetario, anche se la corda sottile del rischio risulta un collegamento tra questi due mondi. A Belmonte, le discussioni concernenti il denaro sono estremamente rare ed anche Bassanio non fa mai parola del proprio stato di necessità dal momento in cui arriva alla dimora di Porzia. In tutte le scene non vengono mai esplicitamente citate cifre se non nel momento in cui Porzia offre al marito una somma pari a venti volte il debito di Antonio verso Shylock per riscattare l’amico. Anche in questo caso il denaro è trattato con aria lieve e priva della serietà e metodicità che si riscontrano a Venezia. La lotteria, poi, assume dei connotati del tutto paradossali: gli scrigni d’oro e d’argento, infatti, contengono l’uno la morte stessa (un teschio con una pergamena che informa lo sventurato pretendente del suo fallimento) mentre l’altro la follia (una testa di folle con una pergamena). La bellezza e ricchezza di Porzia sono invece contenute nel vile Piombo, che tuttavia è caratterizzato da una frase che concentra tutta lo spirito imprenditoriale (“chi sceglie me deve dare e rischiare tutto ciò che ha”). Belmonte è anche il luogo della metamorfosi e della trasformazione. Lì, infatti, Porzia e la sua serva si travestono da avvocati per salvare il mercante ed ancora lì viene svelato l’inaspettato arrivo delle navi di Antonio in porto, sane e salve. In pieno accordo, con Anna Luisa Zazo, che ha curato le recenti edizioni di Shakespeare per la Mondadori, ritengo che il fondamentale contrasto ed opposizione all’interno dell’opera sia quello tra la magia di Belmonte e la realtà mercantile di Venezia.

Antonio, rappresentante per eccellenza della classe mercantile, si presenta come un personaggio di confine. Per amore dell’amico mette a rischio la sua vita pur di consentirgli di raggiungere il suo scopo. In ogni modo cerca di uscire dalla pura realtà mercatoria, regolata dai rapporti del denaro (solo con lui, Shylock stipula un contratto senza interesse salvo poi richiedere la piena adempienza). Presta con generosità all’amico pur sapendo che questo lo porterà a perderlo anche se tenta in qualche modo di ristabilire il primato su di lui, convincendolo a consegnare l’anello della moglie al giovane avvocato in quanto la sua riconoscenza per averlo salvato deve essere “superiore all’obbedienza verso la moglie”. Cerca insistentemente, e trae grande gioia, dal rapporto d’amicizia e sembra non curarsi delle sue sorti finanziarie in modo ossessivo. Allo stesso tempo, il mondo fatato gli è inevitabilmente precluso. Egli è destinato a perdere inevitabilmente l’amico e non può neanche compiere il suo sacrificio supremo, che non sembra temere, a causa dell’intervento di Porzia. Nella scena finale a Belmonte, Antonio sta in disparte fisicamente e spiritualmente distante da una realtà a cui cerca di avvicinarsi senza successo. Nel mostrare lo stato delle cose Ronconi si dimostra un maestro: Porzia ed Antonio non si toccano mai direttamente e l’unico effettivo momento di contatto è attraverso una missiva che Porzia consegna ad Antonio in cui lo si informa dell’arrivo delle navi. Solo l’incertezza, dunque, sembra poter creare un ponte tra queste due realtà inevitabilmente distanti.

Ad Antonio è dunque preclusa la redenzione di Belmonte. Ogni suo tentativo di allontanarsi dalla realtà di Venezia è inutile ed il personaggio è condannato a quella “tristezza che fa di lui un tale inetto che fatica a conoscere se stesso”. Ma se questo novello (o forse dovremmo dire antico) rappresentante della coscienza infelice sembra non comprendere il materiale di cui tale “stoffa” è fatta, possiamo di sicuro dire che è una stoffa pregiata. Il suo stesso status di mercante lo imprigiona senza scampo sin dal titolo dell’opera e nonostante i suoi numerosi tentativi gli impedisce di divenire quello che non è. Così come la “Madre” in “Sei personaggi in cerca d’autore” è un personaggio che il “Padre”, e l’autore stesso, definiscono in odo netto ed inequivocabile, così Antonio è legato in modo inestricabile al suo ruolo. Un personaggio ribelle, tuttavia, che vorrebbe slegarsi dal suo ruolo originario, che tenta invano di essere quello che Iago, in Otello, è senza difficoltà cioè “non essere se stesso”. Questo anelito frustrato è il cuore del personaggio di Antonio, un personaggio inevitabilmente triste, uno per cui “il mondo è quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare una parte… e la mia è una parte triste”.

Più di trecento anni dopo, nel 1957, nell’Italia del boom economico, Italo Calvino scriveva:“Se uno non svolge un ‘attività economica non è un uomo che vale. I proletari pur sempre la lotta sindacale. Noi invece stacchiamo le prospettive storiche dagli interessi, e così perdiamo ogni sapore della vita, ci disfiamo, non significhiamo nulla”. Questa sovversione di prospettive è una delle basi su cui si è creato il mondo moderno. Il lato oserei dire “economico” dell’esistenza ha un peso enorme nella vita moderna e dà un forte contributo ad una creazione di senso per il mondo così come lo conosciamo. Il peso di questa terra è molto più lieve per i moderni rispetto a quello percepito da Antonio ma sembra opportuno chiedersi quanto poi non siamo eredi di questo personaggio da cui potrebbe essere nato il nome della “scienza triste”.

domenica 29 novembre 2009

Terry Gilliam E Il Dottor Parnassus

Stefania Betti

Il 24 Novembre, Perugia ha avuto l’occasione di incontrare il regista angloamericano Terry Gilliam, invitato a partecipare all’anteprima cinematografica dell’ ”Immaginario Festival”, manifestazione in programma dal 3 all’8 Dicembre nel capoluogo umbro.


Il regista, che ha da poco compiuto 69 anni, è salito sul palcoscenico del teatro “Pavone” per essere intervistato da Alessandro Riccini Ricci, organizzatore del festival, e proporre al pubblico incredibilmente giovanile, la proiezione di alcuni suoi lavori, da “Tideland” alle animazioni per il “Monty Pythons Flying Circus“ - The Miracle of Flight” e “Storytime”, seguiti inevitabilmente dal suo ultimo, visionario, film “The Imaginarium of Doctor Parnassus- Parnassus, l’uomo che voleva ingannare il diavolo”.

Gilliam, scherzando molto con il suo Interprete e con il pubblico, si è mostrato disponibile a parlare del suo prossimo e molto discusso progetto cinematografico: “The Man Who Killed Don Quixote – L’uomo che uccise Don Chisciotte”.

Il progetto era talmente ambizioso, che sarebbe dovuto essere tra le più costose produzioni cinematografiche realizzate con fondi esclusivamente europei, ma per problemi con l’avvocatura francese, restìa a rilasciare la sceneggiatura, le riprese sono state posticipate di quasi 8 anni, e sembra che inizieranno in Primavera in Spagna.
A parere del regista, però, questa lunga pausa ha beneficiato al film, che ora, con una nuova sceneggiatura, risulta più interessante, a partire già dal titolo. Sembrerebbe che la storia sia incentrata su di un uomo che si crede Don Chisciotte e che vede crollare tutte le sue certezze tornando dopo 10 anni in un paese che aveva considerato idilliaco, e trovandolo del tutto cambiato. Gilliam ha dichiarato di non voler svelare il cast completo e i dettagli della trama finchè non avrà trovato i soldi della produzione. Una cosa, però, è certa: nel cast non figurerà Johnny Depp, “troppo preso dai suoi impegni di pirata”.
Il regista ha anche aggiunto, ostinato: “Voglio realizzare questo progetto proprio perché tutti mi dicono di non farlo”.

Inevitabile la domanda sulle difficoltà incontrate dal regista nel portare avanti la lavorazione di "Parnassus" dopo la tragica scomparsa dell’attore Heath Ledger.
Gilliam ha risposto, dapprima ironicamente: “Basta avere lo specchio magico!” (alludendo evidentemente all’oggetto-fulcro della storia di Parnassus), poi, riacquistata la serietà, ha rivelato che le riprese sono andate avanti soltanto grazie all’insistenza di sua figlia, co-produttrice del film, che riteneva doveroso terminare l’ultimo film dell’attore, come tributo al suo talento e alla sua memoria.
Il regista ha commentato la scritta inserita prima dei titoli di coda a fine film, in cui si legge “Un film di Heath Ledger e Amici”, definendola "una esplicita dichiarazione del clima fraterno nato durante le riprese": gli attori Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell, hanno infatti deciso di devolvere i loro compensi a Matilda Ledger, unica figlia dell’attore scomparso.

Rispondendo all’ultima domanda riguardante Parnassus, su quanto egli fosse soddisfatto del suo lavoro, Gilliam ha esclamato: “Io non credo di aver mai imparato a fare dei film, ma di Parnassus sono molto soddisfatto. Mi pagano come un regista, ma in realtà io mi sento come uno studente! Mi piace fare film che risultino intelligenti per i bambini, e interessanti per gli adulti. Voglio coinvolgere il mio pubblico su più livelli, fare film che permettano di usare la testa”.

Ha poi lasciato il palcoscenico sorridendo, e aggiungendo che dopo tanto parlare di fantasia “alla realtà non riesco proprio a pensare, ma domani dovrò di nuovo affrontarla, purtroppo, rimettendo piede a Londra!”

L’edizione di quest’anno dell”immaginario Festival”, evoluzione di bATik film festival, è dedicata ai 70 anni di Batman e ai miti del presente, argomento trattato da diversi punti di vista, dal cinema al fumetto, dai videogame alle serie tv.

Per maggiori informazioni potete consultare il sito: http://www.immaginariofestival.org/










martedì 17 novembre 2009

Terminator 4: Il Crollo Di Un Mito

Nicola Pili

Qualcuno ebbe a dire una volta: “(…)da giovani pensavano che il loro culo sarebbe invecchiato come il vino. Se vuoi dire che diventa aceto, è così; se vuoi dire che migliora con l’età, non è così” -Marcellus Wallace-.
Quale aneddoto calza di più di questo per tutti i recenti disastri Hollywoodiani: basti pensare a film come “Trenta giorni di buio”o gli ultimi film di “James Bond”, o ancora al farcito “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo” che già il titolo fa ridere. Ma questa le batte tutte.

Terminator Salvation
Non poteva farcela a lungo. Con "Terminator 3: le macchine ribelli" la formuletta magica di Hollywood aveva funzionato per l’ennesima volta: chi non avrebbe voluto rivedere il caro Schwarzy in vesti metalliche, la purissima azione, le esplosioni e le gambe rotte che i precedenti due capitoli della saga robotica più celebre(nulla togliendo a Tetsuo)che avesse mai solcato i nostri schermi ci aveva regalato. Una saga costellata di paradossi allucinanti e colpi di scena della vita familiare alla Guerre Stellari. Così lo vidi; e lo videro tutti gli appassionati del genere. E guardando questo film, l’idea che già da altri film mi era stata suggerita si realizzò definitivamente: gli effetti speciali, pur essendo potenti al cinema o con un sistema dolby, non fanno il film. Troppe sono state le esplosioni computerizzate e le automazioni dei robot al limite dell’irrealtà; tutto troppo perfetto. E, come sempre, quando un aspetto del film poco importante come gli effetti viene curato meglio, a scapito degli altri parametri importanti del film, come l’interpretazione e lo storyboard, la pellicola è condannata.

Certo, può essere piaciuto a qualcuno, forse a molti, ma tutti saranno d’accordo nel sostenere che il penultimo capitolo di Terminator non può considerarsi neanche lontanamente paragonabile ai suoi predecessori. Ma eccoci al dunque: che senso avrebbe, dopo lo scortese schiaffo puzzolente della soap-opera Sarah Connor Chronichles, umiliare ancora la memoria di un classico della cinematografia contemporanea quale è Terminator? Rivoltarlo, scuoterlo come un tappeto sporco, appropriarsi della storia, dei personaggi e delle invenzioni solo per fare un altro, ennesimo film futuristico d’azione senz’anima e senza un briciolo di modestia?
Hollywood ce lo vede un senso: il boom ai botteghini. Come per Star Wars e Indiana Jones poi, hanno di nuovo fregato tutti alla grande: il titolo sul manifesto sembra il canto di una sirena che attrae e poi uccide, un richiamo a cui è impossibile resistere. Per fortuna, tutti noi oggi possiamo giovare del servizio che internet esegue per la comunità: farci assaggiare il prodotto (quasi sempre facendocelo mangiare per intero), così possiamo testare la qualità. Io ho fatto così. Sembrerebbe che io l’abbia visto questo film, da come ne sto parlando. In realtà non l’ho visto per intero: sono “uscito dalla sala” prima, non so quanto. Cercavo di resistere per vedere finalmente di nuovo Arnold fatto al computer, tornato in auge come al suo esordio; ma non ce l’ho fatta. Scontato, ambizioso e, nonostante gli sforzi, per niente cupo. Buona visione.

sabato 7 novembre 2009

Fortapàsc

Maurizio Fo

In un triste weekend di Halloween causa influenza, ho scelto di noleggiare questo film la cui uscita nelle sale risale alla scorsa primavera. Senza togliere il gusto della visione (che consiglio personalmente a tutti), è bene per completezza raccontare in sintesi la vicenda. Prima di tutto, la storia è vera. Il titolo allude al fortino assediato dai pellerossa, che in questo caso sono metaforicamente rappresentati dalla camorra.

Torre Annunziata, 1984.
Alla redazione-succursale del giornale “Il Mattino” di Napoli lavora un giornalista “abusivo”, Giancarlo Siani. Inizialmente si occupa di fatti di cronaca nera. In seguito viene a conoscenza delle collusioni tra camorra e politica e denuncia, sempre dopo un’attenta e scrupolosa verifica, i fatti così come si svolgono, senza filtro alcuno, spiegandone tutti gli intrecci.

Il suo operato, però, non è di gradimento né ai politici (vedi il sindaco di Torre), né tantomeno ai boss Valentino Gionta (astro nascente della camorra locale) e Lorenzo Nuvoletta.

Intanto Siani è promosso giornalista presso la redazione de Il mattino di Napoli, dove incomincia a lavorare su un’inchiesta riguardante l’appropriamento indebito dei fondi per la ricostruzione del dopo terremoto in Irpinia da parte della camorra.

Contemporaneamente la crescita di potere di Gionta non piace ai suoi alleati, che decidono di venderlo alle forze dell’ordine.

Siani scrive un articolo che riguarda appunto questo fatto: firma così la sua condanna a morte.
I Nuvoletta, per salvaguardare il proprio onore di fronte a Gionta, decidono di farlo tacere.
La sera del 23 Settembre 1985, a Napoli due killer freddano con dieci colpi di pistola il giornalista in un parcheggio sotto casa. Misteriosamente dell’inchiesta cui Siani stava lavorando non se ne sa più nulla.

Ben dodici anni passeranno prima che si conoscano i volti dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio del giornalista.

In rete è possibile comunque reperire numerose recensioni ed analisi.
Eccone una:

http://www.100cinema.it/index.php?/494-Fortapasc-Al-Cinema-Scheda-Cast-Trama-Pressbook-Recensione-Trailer.html

Personalmente dissento dal definire questo film solamente un potenziale buon prodotto per la Tv, come dichiara la recensione sopra indicata. È vero, ci sono dei difetti: molti personaggi sono caricaturali (basti vedere i boss o le impotenti forze dell’ordine), il sorriso finale di Siani forse è troppo costruito e lascia un messaggio di speranza eccessivo. Ma l’obiettivo principale del film è diverso: oltre a raccontare un pezzo di storia italiana purtroppo dimenticata, è importante come il regista abbia voluto rappresentare sullo schermo la storia di un uomo, che ha perso la vita solo per aver raccontato la verità dei fatti.

Una scena molto significativa è quella in cui Siani (Libero De Rienzo: una perfetta mimesi col vero Siani) parla sulla spiaggia col suo ex direttore alla redazione di Torre, Sasà (Ernesto Mahieux). Quest’ultimo spiega a Siani la distinzione tra “giornalisti-giornalisti” (quelli che ricevono la notizia, la verificano e la scrivono senza esitazione) e i “giornalisti-impiegati” (quelli che scrivono, non fan scoop, inchieste): ritenendo di appartenere alla seconda categoria, il personaggio mostra di essere un ingranaggio ormai perfettamente integrato nel sistema, che tutto sommato è contento, perché ha la macchina, l’appartamento, l’assistenza sanitaria.... E ha raggiunto questo traguardo perché a differenza di Siani non caccia il naso dove non gli è consentito. Perché gli scoop fanno male: scuotono le coscienze, fanno venire a galla la verità. E questo non sta bene ai boss ovviamente.

Siani quindi faceva parte di quella serie di giornalisti, scrittori o, allargando il perimetro, di tutte quelle persone, che amavano la loro professione. La storia italiana è ricca di questi personaggi e molti di questi sono poi stati ricordati in pellicole come questa: basti pensare ai “Cento passi” di Marco Tullio Giordana su Peppino Impastato o alle numerose fiction sui giudici Falcone e Borsellino. Pochi, come il sottoscritto, avrebbero conosciuto la vicenda di Siani se Marco Risi (figlio del famoso e compianto Dino) non avesse diretto questo film a distanza di quasi trent’anni dalla sua morte.

Anche oggi c’è un Siani tra noi ed è Roberto Saviano, un uomo che oggi vive praticamente da ergastolano e perennemente sotto scorta per aver scritto un libro, dove racconta nient’altro che la verità, non la rielabora, rende leggibili citazioni di atti processuali e spiega l’intelaiatura del tessuto camorristico, come guadagna, come investe, come ammazza. E per questo continua a ricevere minacce di morte: pochi mesi fa era stato persino scoperto un piano per ucciderlo, che ha costretto lo scrittore a cambiare immediatamente il suo “rifugio”. Come un animale braccato.

Credo che aldilà del gradimento o no che possa derivare dalla visione del film sia necessario innanzi tutto riflettere e non dimenticare personaggi come Siani e soprattutto continuare a sostenere chi lotta per il diritto all’informazione. E solo così nel nostro paese (perché la camorra come la mafia non sono un’esclusiva di Campania e Sicilia) non vi saranno più Fortapasc.

Allego alcuni siti d’interesse:

http://www.giancarlosiani.it/mistero.html sito ufficiale di Giancarlo Siani

http://www.osservatoriocamorra.org/root_sito/pagine/

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=1179 doc. sulla vicenda Siani

giovedì 5 novembre 2009

Inglourious Basterds: Bastardi Senza Gloria

Marco Parini

Abbandonati gli eccessi splatter e B-movie delle sue ultime produzioni (Kill Bill e Grindhouse) il nuovo film di Tarantino, Inglorius Bastards, segna un ritorno ai fasti di Pulp Fiction e de Le Iene coi quali si può dire formi un trittico ideale, massima espressione della sua arte.

Il film non è privo di scene forti, citazioni e riferimenti ad elementi e cifre stilistiche tipiche dei generi tanto amati da regista di Knoxville e immancabili in ogni sua opera, ma si tratta, questa volta, di riferimenti e citazioni spesso sottili e sempre integrate con equilibrio e sapienza nel tessuto del film; così che nessun punto si ritrova a risaltare eccessivamente distraendo con forza o infastidendo lo spettatore che può, se possiede la cultura necessaria, godere di questo secondo livello di lettura senza che l’armonia della trama del film ne risulti inficiata.

Inglorius Bastards è difatti un film che, nella sua complessità, scorre benissimo e con una tale attenzione e maestria nella costruzione di ogni scena da riuscire a tenere la tensione alta fino al crescendo finale: un vero e proprio momento di catarsi collettiva che per le sue molteplici letture vale da solo, assieme al magnifico prologo, il prezzo del biglietto e quello di una seconda visione.

Il film segue due storie che vanno strettamente intrecciandosi sullo sfondo della Francia occupata dai nazisti: quella dei Bastardi di Aldo Raine e dell’ebrea Shoshanna. Aldo Raine (Brad Pitt) comanda una squadra di soldati ebrei scelti col compito di infiltrarsi dietro le linee nemiche e uccidere quanti più nazisti possibile e nel modo più cruento possibile, in una campagna a metà la guerriglia e la vendetta.

Shoshanna (Mélanie Laurent) è una francese ebrea sopravvissuta da ragazza al massacro della sua famiglia perpetrata dalle SS del colonnello Hans Landa (Christoph Waltz; al quale questa interpretazione è valsa un meritato premio a Cannes) e rifugiatasi a Parigi dove la ritroviamo a gestire, sotto falsa identità, un cinema.

L’infatuazione per Shoshanna di un eroe di guerra tedesco sarà il primo di una serie di eventi che porteranno le alte gerarchie del terzo reich nel suo cinema per una premiere. Shoshanna deciderà di approfittare dell’evento per riprendersi la rivincita sugli assassini della sua famiglia e del suo popolo mentre ai bastardi verrà assegnata la missione, con l’aiuto di un ufficiale inglese e una spia tedesca, di infiltrarsi e uccidere Hitler e i suoi gerarchi.

Hans Landa non ha propriamente una sua storia ma si può indicare senza fallo come il protagonista assoluto del film. Egli costituisce il collegamento fra la storia dei bastardi e quella di Shoshanna, interviene in entrambe con forza e costituisce il filo conduttore dell’intera opera. Col suo agire, a tratti con la sua sola presenza, impone i ritmi e i limiti agli altri personaggi, costretti costantemente a fare i conti con l’intelligenza, l’istinto e l’imprevedibilità di questo colonnello delle SS detto “Il cacciatore di ebrei”. Hans Landa non solo gioca con gli altri personaggi ma anche, e per suo tramite il regista, col pubblico imponendosi come uno dei cattivi, e tout court dei personaggi, più affascinanti del cinema.

Anche gli altri protagonisti risultano convincenti nei loro vari ruoli. Attorno a questo film esiste moltissimo materiale che Tarantino, il quale pensava inizialmente di fare de Inglorius Bastards un telefilm, ha dovuto lasciar fuori dall’opera finale e probabilmente è grazie alla sua conoscenza approfondita d’ogni singolo elemento del mondo dei bastardi che ogni personaggio, per quanto marginale e per quanto poco appaia sullo schermo, risulta ben tratteggiato, dotato di una sua psicologia e di un suo valore che gli permettono di imprimersi nella mente dello spettatore. L’unica eccezione è forse Hitler il quale risulta eccessivamente grottesco ma considerato il suo ruolo in questo film più di simbolo che di personaggio si può perdonare il suo essere una macchietta.

Come anticipato il punto culminante del film, il fulcro della parte finale, è un momento estremamente catartico. La catarsi è lo scopo principale del film che costruisce e mantiene costante la tensione, con pochi punti di sfogo umoristici e/o violenti, per permettere allo spettatore di scaricarla tutta in un colpo nella liberatoria scena madre. Detta scena è altresì il momento in cui lo spettatore ha modo di accorgersi di come tutti i riferimenti cinematografici palesi e nascosti del film non sono solamente manifestazioni di affetto di Tarantino nei confronti del cinema ma un discorso, che percorre tutta la pellicola, sul cinema: cos’è, a cosa serve e come si fa. Un discorso profondo, una seconda chiave di lettura che aggiunge molto valore a Inglorius Bastards: film catartico, fantastorico e meta filmico.

Chiunque ami il cinema dovrebbe andare a vedere che questo film che prima di essere una grande opera di fantastoria, una emozionante pellicola d’azione, una nuova perla dello stile tarantiniano, è una grande dichiarazione d’amore alla settima arte.