giovedì 28 maggio 2009

Democrazia Cinese, di Pistole E Rose...

Antonio Rigano

Non mi sembra il caso di dover introdurre i Guns N’ Roses… A riguardo mi piacerebbe ricordare un aneddoto, una cosa che mi è capitata qualche anno fa: ero al mare e avevo conosciuto un ragazzo più grande, simpatico per carità, ma innegabilmente tamarro …
Ci eravamo trovati a parlare di musica, era decisamente di tendenze più “untz-untz” delle mie, si dilettava come dj e impazziva per il Diabolika, M2O e compagnia bella. Devo ammettere che in tale ambito non sono mai stato ferratissimo e non sapevo come approntare una discussione sempre sull’amato tema musicale che ci permettesse di comunicare e parlare la stessa lingua, una κοινή (mi scuso per il grecismo ma non ho potuto resistere). Ecco, timidamente ho cominciato a snocciolare le band con cui sono cresciuto…"mi***ia! I Ganz enn Rroses!" (leggi proprio come è scritto), avevo trovato il punto di contatto. Cominciava a raccontarmi delle fasi della sua adolescenza in un quartiere malfamato di Messina Devo dire che la cosa mi stupì parecchio (mi stupì anche la giusta pronuncia del titolo della prima canzone del primo album della band), tanto da ricordarmene in queste circostanze.

I Guns sono sempre stati un po’ eccesso, ed anche compiaciuto “diciamolo”(La Russa docet)… ma il rock è eccesso!

Il nuovo album non contraddice il diktat, ma è giusto anticipare che la forma sarà nuova: le Pistole sono “altre”, per chi avesse l’orologio fermo al ’93-’94, è duro dirlo, sotto l’insegna di questa band è rimasto solo il cantante degli origi
nari componenti. I nuovi Guns non suonano più l’ hard rock di prima (spero nessuno confonda hard rock e metal…). Le etichettature (musicali e non solo) sono sempre difficili e imprecise, una sorta di violenza della razionalità umana a voler ingabbiare tutto per osservarlo meglio, come un animale allo zoo. Ma piuttosto che non dir niente per la paura di sbagliare, è giusto provare a darne una: easylistening-industrial-numetal, con venature di pop e, ovviamente, forma mentis hard rock.

Un sound veramente saturo: orchestra, coro e stuolo di ingegneri del suono per parti campionate, sovraincisioni, effetti elettronici, brusii scenici e ombre di armonie di “classica”da usare come tappeto su cui lasciar camminare i brani e dare un senso filmografico al tutto.

Un panino (più che) imbottito, che può apparire come un’ammucchiata di ingredienti e gusti non per tutti facilmente accostabili e digeribili, ma q
uesta è comunque una caratteristica dei Guns di Axl, che si son sempre prefissati di dare, e dare tanto:

  • come quantità (la durata media delle canzoni non è mai stata breve, né quanto meno quella degli album)
  • come espressionismo sonoro, inteso come violenza o melassa sentimentale, dipende a che sguardo critico fare riferimento (personalmente non mi dispiacciono entrambi gli aspetti)
  • come novità. Da certi critici musicali i Guns N’ Roses, quelli della vecchia formazione, sono considerati uno dei pilastri della terza rinascita dell’hard rock: nuova linfa, innovativa attitudine punk nichilista atta a sdoganare i vecchi stilemi o a reinterpretarli, testi fluviali che di pari passo al tessuto musicale scorrono dall’inizio alla fine del brano, in un rincorrersi di parole, tale che ci si potrebbe aspettare che il nostro dottor Rose prima o poi si potrebbe riciclare rapper! (Ricordiamo che nel lontano ’75 Steven Tyler, cantante degli Aerosmith, una delle guide spirituali di Axl,[per chi non ricordasse o non sapesse i Guns hanno cominciato come band di supporto agli Aerosmith {se non si fosse notato ho un debole per le parentesi}] ha dato le basi del crossover con “walk this way”)


Axl è magniloquenza, ogni cd dove c’è il suo zampino tende al monumentale, alla costruzione orchestrale minuziosa, arguta, studiata nei minimi particolari (e forse per alcuni quindi meno diretta ed ampollosa), dove l’intrecciarsi degli strumenti è esaltazione dell’ensemble e dei singoli “personaggi”. Ecco questo “Chinese Democracy” si scosta dall’impostazione compositiva degli storici Guns: l’importanza e il virtuosismo dei singoli prima era maggiore. Certo la predominanza di Axl nei vecchi Guns non era così scontata (cavoli Slash non è una comparsa! [per inteso il chitarrista solista, io lo dico, non si sa mai][quello che alla presentazione di “Guitar Hero” si è fatto una partita con Bill Gates…]), doveva sicuramente mediare… e per la storia della musica ormai scritta è stato un bene! Questa “retorica” e ridondanza che alcuni critici affibbiano ai vecchi Guns N’ Roses l’ho sempre accettata di buon grado, anzi difesa come tripudio di vitalità ed energia convogliata nel mezzo musicale per offrirci un carnevale di colori e sensazioni. “Chinese Democracy”, ossimoro ben concepito, non ha ancora fatto vacillare questa mia convinzione anche se, qualche volta, durante l’ascolto, aleggiava, tra orecchie cuore e cervello (credo che siano componenti indispensabili per potersi definire almeno un buon ascoltatore-conoscitore), il dubbio che questa magniloquenza, questa pienezza, questa voglia di epico, in fondo nascondesse un certo horror vacui...

Ma bando alle ciance andiamo a vedere i pezzi:

1- Chinese Democracy E’ la title-track, apre atmosferica e si lascia andare al teatrale, esplode in un riff probabilmente non dei più fantasiosi, ma ben pompato tanto da riuscire a coinvolgere, già da qui si intuisce la tendenza dei nuovi Guns al metal, quello “nu”. Assolo che strizza l’occhio a Morello (a mio avviso forse la più innovativa chitarra delle attualmente in circolazione), cantato che ricorda “it’s so easy”però sincopato e con la voce acuta sovraincisa.
2- Shackler's Revenge Intro stridente e cacofonico, che ricorda un po’ i Prodigy e si rifà ai nuovi stilemi dell’industrial, voce bassa alla Type 0 Negative con sovraincisione della classica voce di Axl, parte corale decisamente power-metal, assolo dissonante e nichilista ancora di influenze morelliane. Si tratta della canzone che necessita di più ascolto per essere digerita.
3- Better Apre con una melodia, un po’ da carillon, costruita con elettronica stridente, che sarà il ritornello della canzone; poi prende vigore, fino a diventare in certi stacchetti nu-metal urlato. Primo assolo chitarristico destrutturato, un po’ come i precedenti, poi uno più melodico (ma sicuramente Slash riusciva meglio in tale compito)
4- Street of dreams Intro al pianoforte che tradisce il culto per Elton John (guardatelo al pianoforte nel video di “November rain”… con quegli occhiali chi voleva imitare?) e quello meno nascosto per Freddie Mercury (tra l’altro ha cantanto “Bohemian Rhapsody” al suo memoriale proprio insieme a Elton John). Archi, tastiere e assolo vibrante e romantico: almeno una ballata ci doveva essere nel cd
5- If the word Intro flamenco con tempo hip hop e campionamenti vari, sintetizzatore e tastiere. Una voce in lontananza che intona una nenia (mi viene il sospetto che l’idea sia stata rubata da “the memory remains”dei Metallica), assolo che si appoggia ad atmosfere che ricordano il caro Santana, forse per lo spirito un po’ latinoamericano del pezzo.
6- There was a time Apre espressionista e si lascia subito andare a “frivolezze” elettroniche, una synth-orchestra accompagna tutto il brano e da effetto scenico. Riff potente, al solito un po’ nu-metal, prende poi le tonalità di una power-ballad: virtuosismi vocali, orchestra mentre la chitarra sembra più addomesticata (bene o male?) e veramente piacevole anche se solo per poco veramente in primo piano
7- Catcher in the Rye Anche questa una ballata, anche questa con massiccio uso di pianoforte, una impostazione che ricorda un po’ gli Aerosmith di “Just push and play”. Intorno ai 2 minuti un pezzetto di archi toccante e subito dopo un azzeccato “lalala” di Axl ed ad incalzare un’illuminazione del chitarrista. Ancora tante incisioni sovraincisioni della voce di Axl, ancora “lalala” e nuovo sfoggio di bravura chitarristica.
8- Scraped Apertura in fraseggio vocale (tra Axl e coro o tra Axl e se stesso grazie ai tecnici del suono? probabilmente la seconda ed è lodevole l’idea, sperando che non sia per queste “genialate” che gli anni sono passati nell’attesa di questo album…). Riff esplosivo
9- Riad N’ the bedouins Un inizio ancora una volta scenico, poi riff aggressivo, accompagnato da voce potente, forse con impostazione “lamentoso-grunge” (lo so mi faccio ridere da solo con questa terminologia, invito a suggermi migliore terminologia o un buon vocabolario[se è pesante lasciare un commento…]), cambi di tonalità improvvisi e assolo nuovamente abbastanza acido e dagli effetti molto “rage against the machines” che accompagna per un finale di spirale caotica
10- Sorry brano dall’atmosfera liquida, grazie agli effetti elettronici, che si modula in crescendo con due “creste” (per rimanere in ambito sonoro ma spostandosi verso la fisica) dalle non nascoste tendenze nu-metal
11- I.R.S Si tratta di un brano in continua tensione che si concede piccole pause, per riprendere il fiato, di estrema delicatezza, forse l’intento era quello di riproporre musicalmente l’ossimoro del titolo dell’album…
12- Madagascar Superbo arrangiamento orchestrale: ottoni e archi all’inizio, ritmo pop da radio, voce volutamente maltratta per imprimere pathos, chitarra urlante, registrazioni di due discorsi di Martin Luther King Jr. e di pezzi tratti dai film “Mississippi Burning" e "Cool Hand Luke”, qualcuno ricorderà ascoltando la traccia una voce familiare… Axl si cita da solo: è la voce che si sente in “civil war” di Use your illusion II (ndr il cd uscito insieme a Use your illusion I nel lontano ’91). Bellissima la chiusura con gli archi.
13- This I love Inizio a voce e piano; ancora pathos, ma forse più forzato del dovuto, forse meno sincero. Assolo carino ma non coinvolgente. Forse è con questa canzone che Axl si autopunisce: il chiaro modello ispiratore sembra la “musica classica”, e a qualche ascoltatore il tentativo di accostamento con questo brano può risultare ridicolo (non mi escludo a priori da questa categoria di ascoltatore…)
14- Prostitute Altra power-ballad. Al 14° brano sembra quasi una sfida all’ascoltatore se è in grado di reggere… ma è questo il rischio che si corre quando si fa molto… A parte queste considerazioni, non significa che il brano manchi di verve, di sua propria personalità, di sua originalità, anche se l’impostazione delle ballate di Axl nel corso dell’ascolto del cd le abbiam già assimilate e questa non si scosta troppo


Complessivamente, l’applauso va:

  • al coraggio di Axl per la pubblicazione: purtroppo l’attesa è stata troppa per poterla giustificare, qualunque livello qualitativo il cd avesse potuto avere! E’ facile “tradire” le aspettative di un fan… E penso che sia ancora più difficile riuscire a farne uno tanto pregevole quando si parte dal presupposto di dover fare un capolavoro, e si fissa a priori un programma per qualcosa di epico. Immagino che Axl si sia deciso di pubblicare più che altro tirato per il collo dalla casa discografica e spinto da una certa resa di fronte al fatto che la “levigatura” (ma lui penso che più che smussare preferisca aggiungere..) poteva essere eterna, senza un reale punto di arrivo.
  • all’innovazione stilistica apportata alla band
  • agli ingegneri del suono per la realizzazione prima che per la reale efficacia dei brani che comunque non possono essere paragonati a quelli di “Appetite for destruction” (ndr loro primo album datato 1987, ormai annoverato negli annali della musica rock)

mercoledì 20 maggio 2009

Telegraph Road: Musica

Matteo Scarcia

È un fischio che parte da lontano e che lentamente si avvicina.
La prima cosa che s'intuisce è che c'è qualcuno che avanza con passo incessante sì, ma timoroso allo stesso momento.
Poi si decide: si pianta, pianta l'asta nel terreno e inizia la sua opera meravigliosa. Una città dal nulla, con tutti i pregi e i suoi difetti.
Era la città nuova e piena di burocrazia ma era la città della vecchia strada del telegrafo, era lei, l'unico vero punto di riferimento, l'unica cosa che contava davvero. Quella strada era la salvezza, ma ora le cose stanno cambiando: il tempo scorre e l'uomo crea il male da se stesso e così anche la città è contaminata dalla tristezza del lavoro-casa-lavoro: 6 corsie di traffico allora, diventano l'emblema.. Di nuovo ci si avvia allora verso un nuovo cambiamento. È un po’ come guardare la propria ragazza negli occhi e capire che qualcosa sta cambiando e che nulla è più genuino come un tempo, come lo era la vecchia strada del telegrafo.

"Sai che dovrei dimenticare presto ma ricordo quelle notti
Quando la vita era solo una scommessa in una corsa tra le luci
Avevi la testa sulle mie spalle e le mani tra i miei capelli
Ora sei più fredda, come se non t'importassi
Ma credimi piccola e ti porterò via
Da queste tenebre, nel dì
Da questi fiumi di fari, questi fiumi di luci
Dalla rabbia che vive nelle vie con questi nomi
Perchè ho acceso ogni luce rossa sul viale dei ricordi
Ho visto la disperazione esplodere in fiamme
E non voglio vederla mai più..."

È la fine dunque, la conclusione dell'opera. La città ormai è preda di se stessa, ha assunto un'anima terribile, un'anima d'insofferenza che sta avendo il sopravvento sull'essere degli uomini. Ormai la contaminazione è terminata e non si riesce più a scorgere nemmeno l'idea della vecchia strada del telegrafo.



Il vuoto lasciato qui sopra serve a distaccare la mia interpretazione da questa poesia in musica. Io non posso esprimere commenti adeguati ai vari passaggi dell'assolo. Potente, imperioso, deciso, arrembante, devastante, affascinante. È bello, nel senso che brilla di propria luce, che è la bellezza musicata, è la perfezione musicale, è il genio che si traveste da pentagramma e incide magiche note e melodie sublimi.
Quando si arriva a tanto, non ha senso andare oltre.
Il mondo si è fermato in quei 14 minuti nei quali la chitarra alata fende il cielo e tocca le stelle per poi trasformarsi in aria ed in musica che accarezza l'anima.
E dunque cosa fare? Inchinarsi di fronte al genio.
Telegraph Road: Musica.

martedì 19 maggio 2009

Storie Dalla Strada

Giorgia Gabbolini

Capita spesso nelle città abbastanza grandi, di camminare per strada e sentire una musica di sottofondo che accompagna i nostri pensieri. Una canzone che, proprio in quel momento, sembra essere adatta per descrivere il nostro stato d’animo.

Ecco che , poco più in là, incontri un giovane ragazzo con la sua chitarra in mano che, per qualche spicciolo, si esibisce in uno spettacolo senza palco, o meglio, un palco diverso: la strada.

Non capita quasi mai di ritrovare la stessa persona nello stesso posto. Sono girovaghi, non hanno una dimora fissa. Una volta esibitisi in quel determinato posto, hanno esaurito il loro dovere e si dirigono verso un’altra città che abbia bisogno di musica e della loro presenza.

Ciò che accomuna tutti gli artisti di strada è l’espressione. Se qualcuno comincia a fissarli negli occhi, riuscirà a vedere dietro quello sguardo un’intera vita, un mondo fatto di note e di coraggio, di angoscia e di liberazione, che trasmettono a chi si ferma ad ascoltarli e stoppa per un attimo la propria vita. Per quanto riguarda il look, è libero, ma ha sempre un piccolo particolare che rimanda alla libertà, ad un essere fuori dal normale e dalla società: il capello rasta, i pantaloni strappati, un trucco insolito, una custodia per strumenti piena di spille etc..

Infine, un altro particolare, è la presenza di un animale, di solito un cane. Tra di loro viene a crearsi un legame indissolubile, perché entrambi affrontano insieme tutti i pericoli che questo tipo di vita produce. Un animale, che diventa confidente, l’unico in grado di saper ascoltare in questo mondo in cui gli esseri umani si confidano mediante apparecchi tecnologici.

Gli artisti di strada hanno scelto la solitudine, ma non vivendo da eremiti, bensì proprio in mezzo al caos, alla fretta delle persone, alla confusione dei pensieri, seguendo la via della riflessione.
Tutto questo me l’ha confidato proprio uno di loro, in uno di questi giorni di maggio, dove i fiori sbocciano ed i musicisti cominciano a suonare. Si fa chiamare “Remì”, ma il suo vero nome l’ha perso da molto tempo, precisamente da quando ha deciso di abbandonare la sua vecchia vita.
Ha trascorso i suoi primi 15 anni dentro una villa gigantesca, circondato dal lusso, da ordini da eseguire e da poco amore. Suo padre è un ricco inglese, diventato tale grazie ad una catena di alberghi che fruttano ogni anno moltissimo denaro. Remì non ne poteva più, voleva fuggire da quelle mura, vedere cosa esisteva oltre. Cosi ha abbandonato tutto. Una sera è scappato e non è più tornato, suo padre non ne vuole più sentire parlare di lui. Un figlio che non ama il denaro, non vale la pena di essere riconosciuto. Da quando ha varcato quei cancelli, ha conosciuto tantissime persone, ha letto libri, ha lavorato, ha conosciuto donne, poi ha scelto la strada.

Di tutti gli oggetti che gli appartenevano, ha tenuto un flauto a traverso, la passione della sua vita. Con i pochi soldi rimasti, si è comprato un elegante vestito da sera, farfallino incluso-“bisogna essere sempre eleganti quando ci si esibisce, i miei spettatori pagano il biglietto” -rispose alla mia domanda sul perché di tutta questa eleganza.- “ma quale biglietto?” -chiesi io- “il peso della vita, che io cerco di alleggerire”- rispose ancora. Aveva ragione Remì, in quel momento il mio l’aveva tolto. Ci salutammo e,mentre camminavo accompagnata dalla sua musica, mi voltai e lo fissai consapevole del fatto che non l’avrei rivisto più. Notai un particolare; ai piedi aveva un paio di scarpe da ginnastica tutte consumate che per niente al mondo sarebbero andate bene con il suo elegante vestito. La tua voglia di libertà Remì, la tua voglia di camminare e di correre verso un mondo che tutti sogniamo. Chissà quante altre strade percorrerai, chissà quanti altri pensieri percorreranno la tua mente. So che per un istante hai percorso i miei.

domenica 10 maggio 2009

David Knopfler: Rivalutazione Di Un Artista

Matteo Scarcia

In fondo bisogna capirlo: è oggettivamente sfigato. Ma non inteso nel senso più diretto e offensivo del termine (che in realtà gli si addice), ma nell'altro: sfortunato. Non poteva certamente aspettarsi un futuro così avverso quando nel lontano 1980 decise di abbandonare Mark e compagni (i compianti Dire Straits) a causa di dissidi con l'odiato fratellone (per la cronaca: durante la realizzazione in studio dell’album successone Making Movies). Mark, il Knopfler quello vero, a fare soldi a palate e che diventa forse il chitarrista più bravo, mentre lui, il povero David, il Knopfler dei poveri, arranca componendo dischi anche di pregevole fattura, magari ultra apprezzati dalla critica di tutto il mondo, ma disgraziatamente rimasti ai margini di quello che poi, per un artista conta davvero, se decidi di fare della tua passione il tuo lavoro: il sistema del mercato discografico. Le radio. Ovvero i dindini, o li sordi (come preferite). Il povero David, e per povero s'intende in tutti i sensi, è stato dunque costretto a fabbricare colonne sonore televisive scadenti per racimolarne un po'. E intanto Mark, il Knopfler famoso, ricco, bravo diventava solista (o lo era sempre stato?).

Ma ora intendo anche difendere il povero David: ha lasciato Mark perché la fama, i soldi non producono arte ma la snaturano. Non è più creare arte ma venderla. David dice che ai tempi di Making Movies, i Dire Straits erano ormai già diventati una macchina commerciale e lui decise di tirarsene fuori. Io gli credo. Perché poteva restare dov'era e fare davvero la sua fortuna. Ma lui no...Era una questione di principio e di valori: quel cattivone del produttore (Ed Bicknell) gli scartava continuamente ciò che lui proponeva e quel monello del fratello lo oscurava suonando sopra le parti che David aveva curato. Era giusto andarsene. Il povero David è un uomo di valori: è membro attivo di Greenpeace e di Amnesty International e non lo sbandiera.

Il povero David non inventa nulla nel mondo della musica ma sguazza nel mondo del rock blues con assoluta dignità. I temi ci sono tutti e sono rilevanti: ad esempio, nella canzone Karla Faye, ragazza costretta a prostituirsi in Texas a soli 10 anni e a farsi di eroina a 12; dopo 12 anni di prostituzione uccise due persone con un complice e fu condannata alla pena di morte nonostante tutti fossero a conoscenza della sua conversione al cristianesimo nel braccio della morte. Prima donna dopo 100 anni ad essere messa a morte: un certo George W. Bush, in corsa per la Casa Bianca non poteva certo mostrarsi tiepido nei confronti di un'assassina.

Musicalmente il giudizio è controverso: il suo è un rock blues pacato e riflessivo, senza eccessi, poco incisivo, però, in alcuni punti che forse meriterebbero maggiore decisione. Domina l'armonia, dolce melodia che sembra cullare. C'è una sorta di antitesi tra l'enorme armonia della sua musica e la forza dei suoi testi. Una cosa è certa: per quanto ci si possa provare è quasi impossibile giudicare il povero David senza confrontarlo con Mark. La voce, innanzitutto: è molto simile a quella del fratello. Al primo ascolto, però, le melodie del povero David appaiono troppo similari a quelle di Mark solista, ma con una differenza: Mark dà il meglio di sé quando "fende l'aria" con la chitarra ("Speedaway at Nazareth", "What It Is", "Silvertown Blues" e "Boom, Like That") salvo qualche eccezione come "Golden Heart", "Sailing To Philadelphia" e "Back To Tupelo". Il povero David, invece, s'inserisce laddove il fratello non riesce a convincere con canzoni di grande fascino ma nelle quali sembra sempre mancare qualcosa: è tutto ben amalgamato, è tutto ben concepito, tutti i cd fondamentalmente omogenei ma…sono i ma il problema del povero David. Ci si perde tra i ma e alla fine ci lascia il retrogusto.

In generale comunque, dei buoni dischi prodotti che se fossero stati composti da qualcun altro, con un maggiore supporto della propria casa discografica, avrebbe potuto fare meglio. Ma questo è un altro discorso che magari tratteremo meglio in seguito. Io intanto, proseguo nella mia ricerca di quegli artisti che sembrano dimenticati anche dalle loro madri. Ripeto allora il mio intento: salviamo il povero David. Rivalutiamo David Knopfler.

Discografia essenziale: Release (1983), Behind the Lines (1985), Cut the Wire (1986), Lips Against the Steel (1988), Lifelines (1991), The Giver (1993), Small Mercies (1995), Wishbones* (2001), Ship of Dreams (2004), Songs for the Siren (2006).
* in grassetto gli album consigliati

giovedì 7 maggio 2009

Bermuda Acoustic Trio: Chitarra E Cabaret

Matteo Scarcia

Bermuda Acoustic Trio: non so perché ma oltre alla consueta idea del triangolo delle Bermuda, il nome del gruppo mi faceva venire in mente un trio da festa dell'oratorio o da sagra paesana. E nella realtà, almeno fino allo scorso anno, non posso certo dire che si discostassero molto da quella mia iniziale idea.

Era questa l'immagine che avevo nella testa, quando mi capitò tra le mani “Live at the Johnny Fox & Echò Music Pub”. Decisi di ascoltarlo attratto principalmente dai suadenti titoli dei brani: Sultans of Swing dei Dire Straits, Your Song di Elton John, Tears in Heaven di Eric Clapton, Wild World di Cat Stevens, Little Wing di Jimi Hendrix e addirittura Marcia alla Turca di Mozart.

Sembrava essercene davvero per tutti i gusti: da una parte maestri della chitarra e dell’altra mostri sacri della musica contemporanea e non. E poi, quella chitarra in copertina… che fossero artisti della chitarra? Chi sono costoro?

Innanzitutto sono italiani. I Bermuda Acoustic Trio sono un gruppo di virtuosi della chitarra (e del basso): due chitarristi, Giorgio Buttazzo e Gabriele Monti, e un bassista, Kamsin Giordano Urzino. La prima cosa che salta all'orecchio, ad un primissimo ascolto anche distratto, è la loro abilità nel rivedere qualunque genere di musica e di mescolarlo in modo tale da creare un suono sempre inaspettato e, a tratti, sorprendente. Ecco, questo è il punto, sorprendono: qualunque cosa riguardante la chitarra con loro, sembra si possa fare, anche utilizzarla capovolta, come percussione. Dalla musica classica di Mozart e di Rossini agli spot pubblicitari. Questi “pazzi” suonano a mille all'ora, giocano, scherzano ed improvvisano (o almeno così pare). Stupisce la straordinaria pulizia del tocco delle corde delle due chitarre acustiche e del basso, la cui funzione non è semplicemente ritmica ma anche, e soprattutto melodica. Ma facciamo un po’ di storia.

I Bermuda Acoustic Trio, narra la leggenda, nascono così, un po’ per caso e un po’ per gioco, durante il sound check di un concerto di Pierangelo Bertoli: i tre iniziarono ad improvvisare, il pubblico apprezzò, loro stessi si piacquero e ne nacque un mini concerto casuale. Era il 1997. Sono passati ormai ben 12 anni e, nonostante il successo ottenuto a livello di pubblico (oltre 2000 concerti e la partecipazione a numerosi tra i più importanti festival chitarristici italiani ed europei), di critica (Jeff Healey, che nel 2001 suonò assieme a loro, li definì “la più divertente band acustica che io abbia mai sentito”), di vendite (ben 25000 cd venduti ai loro concerti) e la partecipazione a Mai Dire Martedì lo scorso anno, il gruppo è privo di contratto discografico. Una scelta, un modo per restare liberi di fare ciò che piace, lasciandosi guidare dall’ispirazione (o forse, anzi meglio, dall’improvvisazione).

I Bermuda annoverano nella loro discografia 4 album: Live at the Johnny Fox & Echò Music Pub (1998), Livin’ Studio (2000), Naturally Live (2003) e Bermuda Plays Pink (2006).
Live at Johnny Fox e Naturally Live possono essere definiti come degli spaccati della loro abilità nel suonare dal vivo, album che sottolineano la loro straordinaria capacità d’improvvisazione e di empatia con il pubblico presente. Livin’ Studio è invece la riproposizione in studio delle loro cover, solitamente (lo ricordiamo) eseguite dal vivo. Bermuda Plays Pink, infine, è un omaggio ai Pink Floyd.

La chitarra (ed in particolare quella acustica) ha sempre un suo fascino particolare e questi maestri, da un lato, la nobilitano con esecuzioni pregevoli e virtuosismi unici e inaspettati; dall'altra, però, possono apparire come dissacratori per il loro continuo scherzare, per le loro imitazioni del mondo animale nel mezzo di assoli che hanno fatto la storia della musica.
Sono artisti che hanno fatto del live, del contatto con il pubblico, la loro caratteristica principale e fondante. Amano suonare e amano divertire e divertirsi: il pubblico lo sa, lo nota e nascono concerti assolutamente divertenti e quasi spassosi, pur mantenendo una qualità compositiva e propositiva decisamente elevata.

In generale, si possono definire un po' come dei cabarettisti della musica, o meglio, come cabarettisti in musica, seguaci, per un certo verso, della più famosa Banda Osiris.

In ultimo, voglio aggiungere che assieme a Savino Cesario e Andrea di Marco formano i Bermuda Circus, che rappresentano una sorta di estremizzazione della loro vena cabarettista.