lunedì 29 giugno 2009

Il Socrate Del Grande Nord: Dove La Piazza Si Fa Sala Di Cinema

Alessia Ferraris

“Le piccole ferite dell'io e le coliche morali sono esaminate al microscopio. La paura del vero che caratterizza il soggettivismo e le coscienze scrupolose è diventata di gran moda e noi corriamo finalmente in un enorme recinto in cui litighiamo sulla nostra solitudine, senza ascoltarci a vicenda, senza notare che ci spingiamo gli uni verso gli altri, sino a morirne soffocati.” (da Tino Ranieri, Ingmar Bergman, il castoro cinema).

La natura è indifferente ai drammi dell’umanità: con i suoi ritmi e i suoi cicli, pare farsi beffe dei nostri travagli. E’ forse questo cuore selvaggio, che ha reso l’uomo contemporaneo così non curante verso le sofferenze dei suoi simili.
Ed ecco che l’ipersensibilità di alcuni appare più come la risposta allergica spropositata di un sistema immunitario che riconosce come dannose sostanze innocue, piuttosto che la voglia di comprendere ed aiutare l’altro: è la sensibilità che si fa vanto, nei moderni salotti radical chic.

In un simile scenario, dove l’individuo arranca nella sua ignoranza spirituale e sentimentale, salvifiche sono le figure che portano alla luce disagi ed inadeguatezze. Nella Grecia antica, Socrate aveva saputo dare una svolta al pensiero, fornendo non solo l’esempio di un metodo d’indagine, ma soprattutto proponendo un modello di vita cui ispirarsi, opponendosi ai meschini sofisti e a quei detentori di verità marmoree.

Oggi molte sono le luci che si stagliano, ma una in particolare giunge dal freddo nord Europa e prende il nome consonantico di Ingmar Bergman.

Regista poliedrico, che ha saputo fare cinema per mezzo secolo, Ingmar Bergman è sicuramente una delle voci più esperte in merito: la sua filmografia è fin dall’inizio costellata da opere che richiamano lo spettatore alla riflessione. Certo, perché se la medicina è la scienza di chi ricerca un’appagante risposta chiarificatoria sui meccanismi dell’anima e del corpo, l’arte, nella sua accezione più nobile, è la scienza di chi esige l’analisi, di chi ama l’interrogativo, di chi vorrebbe operare una radiografia al proprio spirito ed è in quest’ultima prospettiva che Bergman si pone.

L’analisi della vita dell’autore risulta quanto mai indispensabile in questo caso, dato che le esperienze biografiche diventano spunto per i suoi film. Ma partiamo con ordine.

Egli nasce in Svezia, in un’austera famiglia protestante nel 1918. Figlio di un pastore luterano, in casa regnava una disciplina ferrea, che non lasciava spazio all’errore, né tanto meno alla spontaneità. Sempre nel mirino del giudizio dei parrocchiani, la famiglia viveva “come sul palco di un teatro” e lo stress era notevole. Nessuno poteva lasciarsi andare ad atteggiamenti ritenuti “eccessivi”, la decenza e il decoro erano le parole d’ordine: Così le fantasie di un bimbo di sette anni che sognava di andare a vivere in un circo era punita in maniera esemplare (come si ricorda nell’autobiografia “Lanterna Magica”).

Un simile ambiente ha avuto conseguenze differenti sui tre figli della coppia: Ingmar Bergman asserisce di “aver imparato ad educare se stesso alla Menzogna”, celando all’altro i propri veri sentimenti, vestendo di volta in volta maschere diverse a seconda delle situazioni. Uniche costanti nei vari rapporti erano il cinismo e l’indifferenza, più o meno consapevoli.

Nessuno poteva scalfire questo gelido animo, se non la macchina da presa, che piomba nella sua vita per caso, un freddo Natale, quando gli viene regalata una rudimentale lanterna magica: è l’inizio di un legame durato per più di cinquant’anni.

Superfluo cercare nella filmografia un punto di riferimento: tre periodi si possono riconoscere nella carriera e per ciascuno di essi è arduo assegnare il titolo di capolavoro ad una singola opera. Da “Il posto delle fragole”, a “Fanny e Alexander”, da “Persona”, a “Sussurri e grida”, per non dimenticare la cosiddetta trilogia su Dio e l’acclamato “Scene da un matrimonio”.

Unico leitmotiv nel turbinio di interrogativi è l’approccio alle diverse problematiche: l’artista di Uppsala è un chirurgo, che con il bisturi della coerenza e dell’analisi impietosa rimuove i brandelli di maschere che nascondono la necrosi ora della morale ora della società. L’uomo descritto è un individuo solo nella comunità, benché attorniato da più persone, solo nella vita, benché accompagnato da un Dio ormai claudicante.

Se nella prima parte della carriera, un Bergman incerto si cementa in commedie brillanti dall’amaro retrogusto esistenzialista, è con gli anni Cinquanta che il suo cinema si svela al grande pubblico. Tra il 1957 (anno in cui esce “Il settimo sigillo”) e la fine degli anni Sessanta, il regista rincorre le tematiche più diverse, in un labirinto di dubbi e incertezze: dal rapporto conflittuale con la religione ( “Il settimo sigillo” o “Come in uno specchio”o ancora “Luci d’inverno”), alla prospettiva catastrofica di un mondo senza Dio (e senza anima, come in modo straziante è ricordato ne “Il silenzio”); dalla visione dell’arte come un rito, un qualcosa che prende avvio dal nostro inconscio più remoto (“Il volto”, “Il rito”); ai lavori più d’avanguardia, come “Persona” ( film fondato sul paradosso di un’attrice che si accorge di aver recitato molteplici ruoli nella vita reale come sul palco, senza cinicamente rilevare una gran differenza) o “L’ora del lupo”, dove si mette in scena più o meno letteralmente lo scomporsi dell’unità dell’io, la presa di coscienza dell’impossibilità dell’individuo di essere “uno” (“Lo specchio si è rotto, ma che cosa riflettono i frantumi, sapete dirmelo?” intona Johan Borg ne “L’ora del lupo”. Con “Sussurri e grida” si assiste ad uno spartiacque con il passato: è il primo lungometraggio a colori e il maestro sa giocare efficacemente con il simbolismo ad essi associato, producendo un film che si annovera tra i capolavori della storia del cinema. “Sussurri e grida” è la storia di un trio, in cui ciascun componente si fa portavoce di un modo di afferrare la vita: sono tre sorelle, di cui una è la gelida razionalità, il raziocinio disposto “a rinchiudere Cristo in un manicomio” (come viene menzionato a tal proposito nella pièce teatrale giovanile “Il giorno finisce presto” ); Liv Ullman è la carnalità esuberante, fatta di affettuosità melliflue e futili discorsi sdolcinati; ed infine la sorella malata, colei che davvero sa che cos’è la vita, proprio grazie alla sua malattia, che la porta a riconoscere nell’esistenza e nel sincero rapporto con le sorelle un significato che va al di là delle semplici moine civettuole e delle rigide asserzioni di una ragione onnipotente.

Da “Sussurri e grida” lo stile del regista si fa più scarno, abbandona la ricerca del contrasto di luci e ombre (che tanto gli riesce bene in film come “Persona" o “Luci d’inverno”) e maggiormente incentrato sul dialogo, sull’analisi dei volti e delle loro espressioni, divenendo un vero e proprio banco di prova per i suoi fedeli attori. Perciò non si può non riconoscere a “Scene da un matrimonio” del 1973 il suo fortissimo impatto mediatico (tanto che i sociologi dell’epoca riconobbero in esso la causa scatenante dell’impennata di divorzi che seguirono): ritratto di una coppia piccolo borghese dall’appagante vita tra gli agi e la serenità, il matrimonio si rivelerà ben presto un vero e proprio carcere, un incubo, scaturito dal totale “analfabetismo sentimentale” (come lo definisce il protagonista Johan) che li affligge. Un analfabetismo tuttavia ben più drammatico, che affonda le sue radici nella totale ignoranza per ciò che riguarda la propria persona, il proprio essere, che prescinde le maschere imposte de genitori, insegnanti ed amici. Johan e Marianne sono due adulti che si sono convinti della verità ontologica di quel travestimento, che hanno finito per scambiare l’abito con il corpo, il velo di Maya con il mondo. Il quadro raccapricciante è presto definito.

Con “Fanny e Alexander” Bergman ha voluto concludere la sua carriera, lasciandoci un’opera che somiglia più ad una favola, dove fantasia e narrazione autobiografica si intersecano in un racconto formidabilmente riuscito. Faranno seguito opere minori, come “Dopo le prove” e l’ultimissimo “Sarabanda”, in cui l’artista si cimenta nell’era del digitale.

In ultima analisi, perciò, nel regista svedese, si può riconoscere quella figura un po’ mitica e un po’ veritiera, che forse ha annoiato molti studenti sui banchi di scuola, ma il cui valore sociale e culturale è indiscutibile: Socrate. Il filosofo è passato alla storia per la sua inconfondibile ed inarrestabile fame di verità, che lo spingeva per le vie della polis e nelle piazze a porre le domande più banali e più semplici su temi come giustizia e libertà. E non c’era scampo per gli interlocutori: ricchi e poveri, giovani e vecchi, nessuno si poteva esimere da questo incrollabile scienziato del dubbio, che metteva in discussione non già per portare avanti una polemica sterile e distruttiva, ma anzi per porre le basi ad un sapere più solido. Allo stesso modo, Ingmar Bergman è un inquisitore dei nostri tempi, un acerrimo nemico di quello che Pierpaolo Pasolini chiamava “il laicismo consumistico che ci ha resi dei bruti, adoratori di feticci”, ma altrettanto fervido oppositore della tradizione bieca, che porta avanti idee solo “perché si è sempre fatto così”. Lucido psicanalista sine laurea, Bergman come Socrate scandaglia l’animo umano alla ricerca di quel qualcosa che possa salvarci dall’abisso del cinico raziocinio, riportandoci ad una autentica dimensione della spiritualità.

mercoledì 3 giugno 2009

La Triste Realtà Dell'Irreale: "The Truman Show"

Irene Deltetto

Quando pensiamo ad un’opera visionaria e geniale nella sua genialità, la prima persona a cui pensiamo è George Orwell, con il suo “1984”. Se la risposta fosse un’altra sarebbe comunque l’opera di uno scrittore, di un giornalista, magari di uno scienziato. Mai penseremmo ad un film. Invece è proprio di un film che voglio parlare. Questo film è “The Truman Show”, del 1998.

In pochi si ricorderanno bene di questo film, che fu accolto in modo piuttosto tiepido anche quando uscì nei cinema. In un momento ancora libero da Grandi Fratelli, Isole dei Famosi e chi ne ha più ne metta, Peter Weir (regista dei più conosciuti “L’attimo Fuggente” e “Master & Commander”) girò un film fondato proprio sul morboso desiderio degli uomini di spiare dal buco della serratura e, parallelamente, all’insito istinto della curiosità e del desiderio di verità. Si contrappongono due figure: un uomo, Truman, appunto, l’Uomo Vero, che nasce e cresce all’interno di un set televisivo, un mondo creato a tavolino per lui, dove tutti lo possono spiare, appassionarsi, crescere con lui, che però si pone delle domande, vuole capire chi è, da dove viene, perché alcune cose accadono, e, dall’altra parte del teleschermo, gli spettatori che seguono, trattenendo il fiato, ogni sua mossa. Tutti i gesti, i comportamenti di Truman sono seguiti e, talvolta, corretti, nella misura in cui l’imprevisto potrebbe nuocere allo share del programma. Nel “Truman Show”, il reality del film, passano una serie di personaggi che rappresentano diversi approcci al problema posto dal film: c’è la moglie, che ci appare un’attrice senza la minima considerazione per i sentimenti del protagonista, il migliore amico, che rispetta il copione cercando però di parlare con Truman e entrarci per quanto possibile veramente in contatto e la ragazza conosciuta al liceo, mai dimenticata da Truman, che al tempo cercò di liberarlo dall’inganno e perciò subito eliminata dal reality, che rappresenta in qualche modo il desiderio di sapere dell’uomo, di sapere di più. Solo la pubblicità, fatta dagli attori durante la ripresa, in modo da non perdersi nemmeno un secondo della soap, interrompe l’idillio di questo mondo quasi invidiabile.

Questo film è in apparenza molto frivolo e leggero, dalla patinata copertina hollywoodiana, e forse è proprio questa la sua forza, perché allo spettatore attento rivela con estrema delicatezza ciò che si trova nell’animo umano. Alla luce di questo film è facile capire perché in Italia al momento la preoccupazione maggiore (e drammaticamente anche uno degli argomenti di conversazione più gettonati) sia con chi sia andato a letto il premier. Perché in fondo tutti vogliamo spiare dal buco della serratura. E se questo morboso desiderio è persino legittimato dall’opinione pubblica e dalla stampa, che cosa ci può essere di meglio?